Giunti in prossimità delle alte siepi verdissime che il mio amico, piegando il collo all’indietro come un airone cinerino in volo, non cessava di guardare ammirato, avevo chiesto a Sean di aspettarmi lì fuori finché non fossi tornato a chiamarlo, dato che, millantando ancora una volta la mia confidenza con le abitudini del posto e soprattutto col fioraio, il quale, sebbene da abusivo di fronte alla legge, esercitava nei fatti su quel posto tutte le prerogative di un vero proprietario, volevo andare a parlare a tu per tu col signor Koch per sapere se fosse possibile per entrambi avere accesso al campo proprio in quel momento e, nel caso non lo fosse, per forzargli un po’ la mano in nome della nostra ben radicata amicizia. Facendo leva, al fine di accreditare definitivamente l’opportunità di quella mia intercessione, sui suoni che provenivano dall’interno e che alludevano senza ombra di dubbio al fatto che il campo non fosse libero, avevo messo a parte Sean di questi miei propositi col tono perentorio di chi dà per scontato a priori il fallimento di qualsiasi strategia alternativa e, per non sembrare incoerente con una padronanza della situazione che in realtà stavo solo simulando e che quindi temevo potesse perdere la sua credibilità da un momento all’altro, l’avevo lasciato sul posto ad attendermi prima che trovasse il tempo di dire la sua.
Sebbene io – sospinto giorno dopo giorno dalle delizie sentimentali di una curiosità alla quale non sarei in ogni caso riuscito a sottrarmi per via della mia natura ipersensibile e incline a entusiasmarsi in modo sempre sproporzionato di fronte all’incanto segreto delle circostanze più bizzarre e per la mite poesia che loro malgrado accompagna i personaggi secondari – avessi spiato sin dall’inizio e nei minimi dettagli ogni fase del suo lavoro di conversione in giardino dello spoglio, composto abbandono lasciato dal crollo del “CineMoon” e dai lavori di minima ripulitura e di sommaria messa in sicurezza del sito che ne erano seguiti, non avevo affatto col signor Koch quella confidenza della quale mi ero invece vantato con Sean; anzi, per la verità, quel fioraio possente e taciturno e, a giudicare almeno dall’esistenza che conduceva, addirittura misantropo, giacché evidentemente e con la massima disinvoltura trascorreva molto più tempo in compagnia dei suoi fiori e delle sue piante che insieme agli esseri umani, mi rendeva piuttosto inquieto. Egli, quasi come un ingannevole riflesso antropomorfo proiettato sul crinale di una sfasatura spazio-temporale, mi dava infatti l’impressione di poter essere il risultato di un fenomeno di duplicazione; due nature perfettamente reali, distinte e coincidenti: quella antica e quasi olimpica del placido contadino miniato, tra l’oro e il blu cobalto, sulle pagine preziose di un breviario rinascimentale, e l’altra, lasciata invece al presente e allo scricchiolio macchinoso della sua serrata concretezza, di un uomo talmente torvo e introverso da poter indossare senza problemi nel suo dissimulato quotidiano i panni di un vero mostro da cronaca nera. A guardarlo da vicino, Clemente Koch impressionava prima di tutto per la sua statura che, forse anche a motivo della camminata un po’ ciondolante alla quale, per mantenersi in equilibrio sostenendo nel modo migliore la spinta verso terra della sua considerevole stazza, egli tendeva ad adattarsi grazie a una curiosa disinvoltura femminea che a volte sdrucciolava verso tratti infantili, mi ricordava molto quella stranamente imponente di John Wayne, così come l’avevo sempre vista sullo schermo ai tempi in cui mio padre prendeva l’iniziativa di accompagnarmi al cinema solo quando proiettavano dei film western, raccontandosi ogni volta la favola della mia maniacale passione per quel genere che era poi in realtà soltanto sua; e poi per le sue spalle, squadrate come l’anta di un armadio antico, di quelli che venivano lavorati in legno massiccio e pregiato direttamente nelle case degli aristocratici da meticolosi falegnami d’altri tempi; e infine per le mani, grosse e tozze, tali e quali le zampe di un orso, coperte da peli scuri e con le dita corte, concluse ben oltre la loro effettiva lunghezza dagli archi opalescenti delle unghie quasi appuntite, colorate al centro da un velo esangue di rosa che ai lati mostrava indurimenti giallognoli, spessi di scaglie e di pelle. Per fortuna, a parziale sollievo della strisciante apprensione ispirata alla mia innata insicurezza dal suo aspetto, reso tra l’altro ancor meno inoffensivo dal folto groviglio di capelli che, simile al vello di un montone selvatico, faceva tutt’uno col suo cranio, il signor Koch aveva però anche un odore incredibilmente rassicurante, fresco e materno come quello di un bucato primaverile già ben ripiegato e fragrante di lavanda provenzale, che lo accompagnava, pur nella sua sicura sobrietà mascolina, sempre privo di note aspre e preservato a dovere dal benché minimo cedimento all’incuria. Esso era forse la più diretta conseguenza del suo lavoro di floricoltore e di fioraio e della fatica gentile che lo contraddistingue; un’attività per la quale la terra non è mai quella vasta, grassa e profittevole degli agricoltori, bensì l’altra, la sua miniatura, quasi ingenuamente consacrata alla bellezza discreta delle scenografie e scandita dalle corali meraviglie dei giardini, delle aiuole e delle serre.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti