L’UOMO DISINCANTATO – Io e Sean (4)

Mentre percorrevamo il tratto di strada che ci separava dal campo io, allo scopo d’impressionare Sean sbandierando tutta la mia conoscenza del luogo e dei fatti che lo riguardavano con la stessa prosopopea che può contraddistinguere un esperto nostromo nel momento in cui sul ponte di comando – che nella plasticità della postura egli mostra di considerare un po’ come il suo regno – si rivolge per la prima volta a un giovane mozzo appena ingaggiato per descrivergli in ogni dettaglio la vita dell’equipaggio del mercantile sul quale sono entrambi imbarcati, mettendosi così nella condizione di procedere con la dovuta solennità all’assegnazione della branda e finalmente anche alla consegna delle corvée più adatte a un principiante, non gli avevo risparmiato alcun particolare intorno alla storia favolosa del “CineMoon”. Per non sembrare però il solito ragazzino timido che, una volta oltrepassati i limiti asfittici che la sua natura gli impone, diventa d’un tratto il più invadente dei logorroici, mi ero subito reso conto di dover precisare, in un inciso per la verità non meno prolisso dell’intero racconto, che proprio là dove una volta sorgeva quel vecchio cinema di quartiere era fiorito, nonostante l’anonimo e brullo deserto lasciato dalla sua rovina, un incantevole prato all’inglese, e questo solo grazie al signor Koch, il fioraio che, col suo discreto e prudente lavoro certosino di cui potevo davvero dichiararmi l’unico, attendibile testimone oculare, aveva sottratto a poco a poco alla vista e ancora più rapidamente alla memoria degli abitanti del rione, d’altra parte già ben predisposti in quanto ormai quasi tutti emancipati da quella specie di vaga nostalgia, comunitaria e indolore, rimasta verbosa a ribollire, sotto forma di consuetudine, tra le sparute camarille dei più conservatori fra gli anziani, quell’area dimenticata persino dai legittimi proprietari e ridotta a un piccolo fazzoletto di terra di nessuno, a una minuscola e solitaria enclave di polvere e vuoto; e, sempre più ispirato da un’emozione fisica di prelibata libertà, avevo aggiunto, quasi senza riprendere fiato e con quel linguaggio libresco al quale dovevo la mia reputazione di bambino intelligente ma stravagante, che col trascorrere del tempo questo giardino indecifrabile, conosciuto da pochi e in cui d’altronde pochissimi provavano ad avventurarsi (non tanto per paura quanto per la mancanza della curiosità necessaria), era stato dolcemente ingoiato dal viluppo rigoglioso delle siepi piantate da Koch per proteggerne l’intero perimetro, mentre le antiche geometrie dei grandi parchi rinascimentali e barocchi, così terrene e concrete nella loro bella capacità di armonizzare e dirigere con musicale eleganza qualunque passeggiata, erano state assorbite alla perfezione – e quindi continuamente rievocate – da quelle astratte, essenziali e quasi metafisiche del disegno di un campo da tennis in un ideale baratto: l’offerta dello spazio del gioco in cambio del dono del tempo.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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