L’UOMO DISINCANTATO – Io e Sean (2)

Il mio primissimo incontro con Sean era avvenuto a metà di un pomeriggio di tarda estate, mentre il caldo soffocante dei giorni precedenti cominciava a mostrare qualche sparsa cedevolezza che di lì a poco, animandosi in un gioco sempre meno delicato di rannuvolamenti e schiarite, doveva inaugurare l’epoca dei temporali e chiudere quella dei piovaschi brevi e soleggiati, in cui l’acqua, cadendo fitta e sottile, sembrava non avere altro scopo che quello di rivelare agli occhi degli uomini, forse al fine di assecondarne la propensione stagionale, tuttora fortemente dominante, al buon umore, la vera natura dell’intima allegria – altrimenti indecifrabile – che promanava ancora intatta dalla tiepida luminosità di quelle giornate, per poi trattenere a terra la medesima luce, disciolta infine in umide costellazioni di rigagnoli dorati o concentrata in piccole e grandi pozzanghere, simili a una distesa di specchi abbaglianti di quiete e accesi di volta in volta nelle loro segrete foglie d’argento ora dalla rapida vibrazione di un movimento appena afferrato, ora dalla placida immobilità di un riflesso costante.
Mi trovavo a camminare, tenendo per gioco il piede sinistro sull’acciottolato e il destro sul bordo del piccolo marciapiede con l’intento di provare a mantenere un’andatura claudicante per l’intero percorso a dispetto dei pochi passanti e delle ancor più rare automobili, lungo una strada secondaria che in quella stagione usavo spesso per rientrare a casa sul far della sera, dopo essere andato a zonzo per il quartiere senza uno scopo che non fosse quello di starmene per conto mio e mai prima di aver cambiato direzione innumerevoli volte, poiché a quell’ora, a causa del prolungarsi pigro delle giornate, provavo nel guardarla un’emozione inconfondibile – una specie di ebbrezza da solitudine – mentre, sospesa a galleggiare sotto l’arco di una luce rapidamente mutevole, pareva a poco a poco solidificarsi, passando, attraverso un incendio luminoso che, subito soffocato dai contorni scuri delle case, ben presto si estingueva lasciandole addosso bruciature rossastre e gialline di terra di Siena, da una liquida morbidezza ambrata, comparabile a quella di un whisky invecchiato, alla successione, sempre più lenta e infine completamente inerte, di patine porose d’aria e colore, al tempo stesso affumicate e alabastrine, attraverso le quali ogni mio sguardo sembrava assumere la consistenza leggerissima di una sottile lastra di pietra pomice. A un tratto avevo udito un battito regolare, praticamente privo di sincopi o controtempi, levarsi da qualche parte nelle vicinanze e, sospinto da una curiosità estemporanea o forse a causa di un’eco scavata da quel suono direttamente nella vita potenziale iscritta nelle mie inclinazioni, avevo svoltato sopra pensiero verso destra, la direzione dalla quale mi pareva che esso provenisse. Di fronte a me si era aperto allora un mondo che per la verità avevo già attraversato tante volte senza tuttavia vederlo e conoscerlo mai per davvero; un paesaggio, cioè, che, dopo numerose occasioni andate a vuoto, in quella situazione e per chissà quale motivo, mi si era finalmente presentato come una primizia assoluta, capace di suscitare in me prima un’immediata impressione e quindi una reazione duratura (un po’ come mi sarebbe accaduto in seguito con alcune care amiche, che avevo cominciato a riconoscere attraenti e desiderabili solo quando, risvegliato per un caso qualsiasi da quella specie di anestesia erotica che fatalmente accompagna la grande confidenza e il continuo frequentarsi, mi erano apparse tutt’a un tratto alla luce eccitante della loro oggettiva bellezza). Nel vicolo che avevo imboccato tutto mi pareva perfetto: la luce, il punto di fuga della prospettiva, da qualsiasi angolazione la si guardasse, e persino la Morris Minor 1000 Traveller color verde e viola parcheggiata nell’ombra, che, spinta nel contempo indietro e ai margini del mio campo visivo a ogni passo ulteriore che facevo, finiva sempre più fuori fuoco, quasi riproducendo l’effetto ottico di uno di quei grumi di pigmento, da una parte vorticosamente opachi e dall’altra spianati e brillanti, che caratterizzano la pennellata di Van Gogh; le costruzioni erano tutte basse e disposte su due file parallele separate da ciottolato e ciò lasciava immaginare che un tempo quello fosse stato un viottolo di servizio tra le stalle e le scuderie – poi trasformate appunto nei caseggiati dall’eleganza schiva e composta che avevo di fronte – annesse a qualche dimora aristocratica d’epoca georgiana o vittoriana; dal mio punto di vista di allora si trattava però di un villaggio microscopico, lieto del proprio raccolto nascondimento e adorno di quel tipo di verde, che a un primo sguardo può sembrare disordinato e casuale ma che in realtà è studiatissimo e curato nei minimi dettagli, che rende incomparabili i giardini londinesi. In fondo, nei pressi di una delle ultime case, un ragazzino che poteva avere all’incirca la mia età stava palleggiando contro il muro con una vecchia racchetta da tennis dal fusto sverniciato. Alternava velocemente un dritto a un rovescio e colpiva ogni volta la palla con la sbalorditiva esattezza di un metronomo. Incantato dalla sua precisione, ero rimasto a guardarlo per un po’ finché lui, accortosi della mia presenza, si era interrotto e, girando senza fretta prima la testa e poi il busto, mi aveva fissato rimanendo di tre quarti. Mi ero accorto allora che aveva gli occhi grandi e smarriti, verdi proprio com’erano i germogli d’erba sotto il pelo limpido dell’acqua dei piccoli laghi boschivi ai quali mio padre mi portava a bere durante le nostre sporadiche escursioni in montagna; sulla testa calzava un berretto all’irlandese a otto spicchi, in tweed, che per via dei capelli ricci che fuoriuscivano dai bordi pareva uno di quei piccoli cespugli scuri e selvaggi che s’incontrano nelle brughiere. Alla fine, scivolando con improvvisa facilità giù dal pendio di un’indecisione prolungatasi troppo a lungo, mi aveva sorriso, alla maniera tersa e confidenziale di chi lo fa di rado, e, porgendomi la mano, si era presentato, dicendo di chiamarsi Sean.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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