L’avvenimento più importante di quegli anni, quello cioè che aveva impresso una direzione ben precisa alla mia vita, spingendomi anche a prendere, benché grandemente intimidito, le prime, spaesate misure del mio piccolo posto nel mondo degli altri, là dove fino a quel momento ero penetrato solo in punta di piedi e comunque attraverso il filtro protettivo dei legami familiari (ovvero facendo attenzione a fermarmi sull’uscio di casa, senza scendere mai dall’ultimo scalino, ben al di qua della strada e quindi di un coinvolgimento diretto nel tempestoso intreccio dei rapporti umani che, tra consuetudini, mode e leggi naturalmente in contrasto tra di loro, vengono vissuti solo soddisfacendo una fame perenne di sfumature e di compromessi, essenziali a una vicendevole sintesi qualunque, il cui costo è sempre quello di ritrovarsi a benedire, con o senza i mascheramenti dell’ipocrisia, il ricorso sistematico alla brutalità , alla menzogna e alla contraddizione), era stato senza dubbio l’incontro, destinato a consolidarsi in una solida amicizia anche grazie al favore del caso che in seguito ci aveva condotti non soltanto a frequentare la stessa scuola ma anche a scoprire di essere stati assegnati alla medesima classe, con un ragazzino schivo e all’apparenza cagionevole di salute di nome Sean McNult.
Sean aveva sulla testa un folto cespuglio di capelli neri e, a differenza dei miei, tutt’altro che sottili, appena arricciati solo sulla fronte e sulle orecchie così da permettere alla mia fantasia, precocemente alimentata dalle grandi illustrazioni dei libri di storia dell’arte che occupavano un intero scaffale nella vecchia libreria di mio padre, di ritrovare in lui le sembianze primitive e aggraziate di un coreuta greco, davvero simile nei tratti a quelli che avevo visto rappresentati sugli antichi vasi di terracotta, e quindi d’immaginare addirittura che il deciso cambiamento d’aspetto nei suoi capelli, lisci su gran parte del capo e crespi invece sui bordi e sulle punte, segnato da una breve ondulazione tanto improvvisa nel formarsi quanto uniforme nel disegno, fosse l’indizio della sua abitudine di indossare, quando io non potevo vederlo, un qualche tipo di corona oppure il serto dei condottieri, il che, dissonando con la sua costituzione a prima vista piuttosto gracile, non faceva che accrescere ai miei occhi l’alone di un fascino quasi mitico, pieno di nobiltà e tuttavia mai altezzoso, che le sue origini irlandesi, strappandolo subitamente alla Grecia, proiettavano a loro volta nella contea di Meath, a Tara Hill, la collina sacra a forma di doppio solco intrecciato che ricorda il simbolo dell’infinito, dove un tempo ricevevano la loro investitura gli Ard-Ri, i primi re d’Irlanda.
Abituato com’ero a fantasticare, non avevo allora difficoltà a rappresentarmi Sean come uno dei Feniani, i cavalieri del Destino, protettori dell’isola e custodi dei quattro doni dei Tuatha de Danann, gli dei venuti dalle terre a nord del mondo: il Santo Graal, la Pietra del Destino detta Lia Fáil, la lancia di Longino e la spada Excalibur; e questo mi attirava verso di lui, nutrendo il mio sproporzionato desiderio di coltivare la sua amicizia con un impulso infantile fatto quasi esclusivamente di ammirazione e di gratitudine.
Come tutti gli eventi notevoli che – a posteriori me ne rendo conto con estrema chiarezza – hanno avuto nel corso della mia esistenza disincantata una forza in grado di superare le secche astratte e confortevoli lungo le quali si sono via via congiunti – secondo uno schema sempre uguale mosso dalla predisposizione e compiuto nell’abitudine – i miei tanti progetti di vita naturalmente immaginari e le conseguenti, azzardate interpretazioni da parte mia dei ruoli del protagonista nelle relative messe in scena quotidiane, sia gli uni che le altre tanto emotivamente soddisfacenti per me (e si potrebbe dire quindi “nutritivi” per quella zona della psiche nella quale si marca la netta differenza tra il disincanto, che è una condizione logica e misteriosa, per molti versi non lontana dal condividere i caratteri essenziali della matematica intesa come esperienza, e un qualsiasi temperamento malinconico o addirittura la comune depressione) quanto viceversa poco rilevanti per il mondo esterno, avido sempre di gravità , e per la vita vera, occupatissima dalle innumerevoli e millimetriche imperfezioni del suo prosaico trambusto e interessata alla matematica soltanto in forma di ragioneria, anche il mio primo incontro con Sean aveva avuto a che fare col tennis.
C’è da dire che a quei tempi, quando la passione viscerale per questo sport, che pure si andava arricchendo giorno dopo giorno di nuova consapevolezza e di sempre più soddisfacenti dettagli emotivi, non mi aveva ancora folgorato fino in fondo con l’assoluta, imprescindibile chiarezza dei grandi amori, e a maggior ragione molto prima che io potessi e volessi pensare di fare del tennis agonistico la mia vocazione definitiva, quella capace cioè di indirizzare il corso della mia vita a partire – proprio come avviene normalmente per ogni persona – da una scelta incondizionata e valida una volta per tutte, e che per perseguire questo obiettivo, dovendo inevitabilmente irrobustire dall’esterno una forza di volontà che dall’interno invece mi faceva difetto a causa del disincanto (un po’ come avviene a quegli studenti universitari svogliati che rimandano un esame dopo l’altro finché non s’innamorano perdutamente di una ragazza che dice loro: “Se non ti laurei, io ti lascio!”), finissi per scivolare senza neppure farci troppo caso nella dipendenza dalle pasticche di DOG (un tema vasto, complicato e di sicuro spiacevole da trattare, che per ora è meglio lasciare in sospeso, riservandone l’approfondimento a una futura e più adeguata occasione, non appena cioè questo racconto si sarà sviluppato in modo opportuno e a sufficienza, così da non dover rimanere nei limiti angusti e forse fuorvianti di un’anticipazione frettolosa), io coltivavo ancora l’abitudine di desiderare e di progettare senza nutrire in fondo (come ho detto, in principio per pigrizia e poi per distrazione) alcuna voglia di avere e di realizzare, istintivamente fermo nella certezza dell’inutilità , se non addirittura della pericolosità , di una relazione troppo diretta tra i due piani. Rispetto a ogni cosa ero, per così dire, come uno stravagante innamorato che, pensando alla donna amata, si chieda: “Perché se già la amo infinitamente devo essere per forza di fatto anche innamorato di lei?” Questi, in definitiva, rifiuta l’idea che ciò che già gode della libera, alata pienezza della potenzialità più assoluta debba poi avere bisogno di relativizzarsi in un evento tanto attuale quanto sbiadito solo per potersi accreditare nelle vesti di “vita vera”; e nel contempo, siccome è perfettamente consapevole di essere attratto dalla bellezza fisica di lei così come del fatto che non avrebbe alcun motivo di disprezzare l’eventualità di trascorrere con lei una notte di passione, purché questa, rimanendo fedele alla propria verità , fosse una volta per tutte davvero e soltanto tale, sa che il suo sentimento non ha nulla a che spartire con l’amore platonico ma è una sorta di precisa sutura chirurgica tra due tipi diversi d’amore – uno smisurato e l’altro dettagliato – per la perfezione.
Vivere era in sostanza per me come attraversare lentamente, lungo l’unità di misura temporale perfetta – vale a dire quella davvero capace di elevarsi a metafora suprema di ogni altra – di un’intera, diletta stagione, ascoltando con cura le molteplici risonanze di ogni mio passo e di ciascuno scoprendo nel dettaglio l’unicità riposta nello spazio e nel tempo, la galleria degli specchi del castello di Versailles (della quale avevo già una conoscenza piuttosto precisa anche se all’epoca di natura esclusivamente fotografica), procedendo atteggiato a una nobiltà favolosa e senza tuttavia sottrarmi all’inquietudine di farlo pur sempre in bilico tra i fantasmi dei tanti paesaggi segregati al di là delle grandi finestre e i loro enigmatici riflessi interni. Mi sentivo cioè letteralmente soggiogato da un vortice generoso che, forandone entrambi gli involucri ideali, metteva in comunicazione la realtà e il sentimento e all’interno del quale la luce naturale dissolveva soltanto per me il mondo intero in ombreggiature sognanti subito ricomposte da quella artificiale in altrettanti, precisi bagliori. Così, tanto per rendere la similitudine meno generica, gli alberi, i viali e le fontane, condensati attraverso i vetri e le trasparenze in orditi estesi e verosimili di contorni e velature, tremanti d’acqua, densi di pietra e orlati di verde e di creature mitologiche, scivolando poi all’interno, potevano invece rivelare, nella diversa forma delle infinite rifrazioni degli specchi, il movimento perlaceo di una tortora appena transitata in volo o la screziatura cremisi di una dalia in fiore.
Nel medesimo tempo però (e qui, come un pittore che rimette mano al suo dipinto dopo averne ultimata la prima stesura, vado ulteriormente precisando e chiarendo alcune delle considerazioni già svolte nelle pagine precedenti), intorno ai progressi della mia attrazione per il tennis andava producendosi uno strappo – nel quale in seguito avrei riconosciuto con chiarezza nient’altro che una bella turbolenza di superficie dovuta fatalmente all’età – tra la linea di condotta imposta nell’immediato dal corpo alla mia volontà e il destino, invece sobrio e paziente sullo sfondo, sin dal principio stabilito in prospettiva nello spirito per la mia coscienza, mentre si coagulava a poco a poco ma non senza dare anche prova di sicura continuità , trovando appunto con immediatezza proprio nella componente fisica della mia vita la sponda più naturale e quindi nell’amore per uno sport il più ragionevole degli esiti possibili, l’insopprimibile insofferenza adolescenziale che provavo nel sentirmi emarginato e diverso dai miei coetanei. Solo molti anni dopo quel sentimento negativo – un misto di sgradevole irrilevanza e di esclusione dolorosa – sarebbe davvero riuscito a decantare, consentendomi infine di essere forte abbastanza per farmi carico di tutte le ripercussioni morali imposte dalla sua logica ineluttabilità e, con la stessa, agevole naturalezza di un nodo incredibilmente intricato condotto d’un tratto dalla mossa giusta all’incanto del proprio scioglimento, per aprirmi alla riposante bellezza e alla beatitudine essenziale di una vita invisibile, priva di gloria e tuttavia non comune, da portare a termine in disparte, con l’eleganza singolare che accomuna nella sua estrema sottigliezza le cose terribili e quelle sublimi.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti