L’UOMO DISINCANTATO – Incipit della prima parte

Negli anni della mia prima giovinezza ho creduto che il disincanto non fosse altro che il normale sentimento del tempo. Questa convinzione, che non va considerata un errore di prospettiva quanto piuttosto una prospettiva incompiuta, mi aveva reso sin dall’infanzia un bambino abbastanza complicato, sotto molti aspetti differente dai miei coetanei, introverso e spesso nervoso, dotato di un particolare discernimento, senz’altro sproporzionato rispetto alla mia età e che a volte sconcertava perfino le persone facendomi apparire ai loro occhi una specie di bizzarro adulto in miniatura, provvisto di un’intelligenza di sicuro superiore alla media, curioso, istruito e ben educato, ma pure incline a mettere radici in quel passato che, a dispetto del numero ancora esiguo dei miei anni, all’epoca mi piaceva rimpolpare grazie all’amore che avevo per la storia e soprattutto per l’epopea napoleonica. Il disincanto, infatti, mi induceva a considerare tutto ciò che era già avvenuto come l’unico dato di fatto con le carte in regola per esserlo – e, a differenza del presente, anche in positivo – messo a disposizione della mia intelligenza dall’ordine delle cose così com’è regolato dal tempo. Con la sua piena e rassicurante oggettività, conquistata a costo di una condizione ormai perennemente inattuale, il passato era per me tutt’altro che una materia inerte e si prestava anzi a essere reso di nuovo duttile e creativo – a volte persino con esiti sorprendenti – sia ricorrendo all’entusiasmo spicciolo della memoria personale che affidandosi alla sapienza più duratura delle interpretazioni storiche. Senza che ne fossi consapevole, il disincanto mi spingeva così ad appassionarmi con incredibile disinvoltura a una forma di vita quasi smaterializzata e prepotentemente intellettuale che, nel caso del passato, non poteva non lasciarsi contaminare con un certo godimento dalle emozioni erudite della storiografia. Per la stessa ragione il futuro, che ai tempi, sempre per via della mia età, mi appariva anche ingentilito da un’ampiezza generosa e pressoché sconfinata, traeva da questa mia predisposizione a idealizzare lo spunto per perdersi a sua volta in quell’altro tipo di narrazione, diversa ma non contrapposta alla storia, che è la favola. Al presente guardavo invece in certi momenti addirittura con ansia e con sospetto anche se l’atteggiamento dominante che mi suscitava era un fastidio un po’ nevrotico, conseguenza diretta della percezione della sua natura di realtà negativa, grigia e ristretta, implacabile come un acquitrino di dati di fatto, senza vie d’uscita aperte sull’equilibrio leggero di una qualche specie di racconto.

Era proprio a partire dal tempo, quindi, che il disincanto si faceva forte, screditando il presente e opponendogli da una parte la realtà della memoria dilatata a dismisura dai suoi sconfinamenti nella storia e dall’altra la verità dell’attesa corretta grazie alla letteratura, mentre stava già dissodando la mia vita come se fosse stata un terreno vergine e grasso al quale offrire fertilità ma anche oscuri segreti, contrapponendo apparenza e interpretazioni. A distanza di anni, infatti, penso a me stesso a quell’epoca un po’ come alla bella campagna, lavorata con zelo, che se ne sta vasta e quieta sotto la luce rassicurante di un comune tramonto campestre, sottomessa nel tempo profano dal sudore della fronte degli uomini e sorvolata in quello sacro dai rintocchi delle campane di una chiesa così lontana da sembrare appena un’indecisione impervia dell’orizzonte, dipinta da Jean François Millet nella sua tela forse più famosa – “L’Angelus” – non senza aver prima nascosto tra le sue zolle appena arate un segreto terribile, simile a un piccolo filo che pende sinistro da un arazzo meraviglioso rivelandone il rovescio inespressivo e imbrogliato.

Su questo, affinché la similitudine appaia del tutto chiara, bisogna però fare una precisazione.

C’è da dire infatti che, sebbene fossi al corrente di quanto Millet, trasferitosi in pianta stabile a Barbizon nel 1849, amasse dipingere soggetti legati alla dura esistenza di quei contadini in mezzo ai quali aveva scelto di vivere, fin da ragazzino mi ero adattato anche a tener conto di una mia impressione, fattasi col tempo sempre meno incerta e più inquietante, circa la possibilità che la vera protagonista di quel quadro, al di là dei condizionamenti imposti allo sguardo dalla sua funzione formale di paesaggio, fosse in realtà solo e proprio la terra; e questo nonostante la presenza quasi eroica e monumentale dei due contadini, un uomo e una donna, verosimilmente marito e moglie, posti in preghiera al centro della scena, a capo chino e con le mani giunte, mentre tutt’intorno alcuni utensili – un forcone conficcato nel terreno, una cesta e una carriola – evocano con discrezione tutta la pesantezza della loro fatica quotidiana. L’intuizione che aveva pian piano fortificato il mio sospetto rendendolo alla fine quasi una certezza mi era venuta in seguito a un’attenta osservazione della luce nel quadro, che si diffonde libera a partire dall’orizzonte illuminando però direttamente agli occhi di chi guarda soltanto la campagna, limitandosi ad avvolgere di spalle i due presunti protagonisti, i quali per questa ragione rimangono in ombra, come due isolotti disabitati in mezzo al mare fotografati di fronte al tramonto e con l’obiettivo quasi a pelo d’acqua. L’importanza di quel vasto campo dipinto da Millet con un realismo stranamente meno minuzioso e più allusivo rispetto alle sue abitudini, al quale rassomigliavo senza neppure rendermene conto giacché sin dal giorno della mia nascita il disincanto aveva cominciato a coltivare in me la sua indole attraverso la percezione del tempo, andava decisamente oltre la funzione evidente e quasi banale di chiesa a cielo aperto e di fonte di sostentamento per una famiglia di giovani contadini.

Il cerchio si era chiuso quando avevo scoperto che a suo tempo Salvador Dalì, ossessionato da quel quadro al punto di scriverci sopra addirittura un libro e di dipingerne una sua versione divenuta poi quasi altrettanto famosa, si era convinto proprio come me che la pace apparente di quella campagna fosse in realtà una simulazione, che cioè essa non rappresentasse soltanto la quinta teatrale di uno spettacolo di cristiana rassegnazione per una vita fatta di stenti e di miseria ma avesse un ruolo ben più grave e assoluto. Secondo Dalì, infatti, ai piedi dei due contadini in preghiera era nascosta una piccola bara e una radiografia alla tela da lui sollecitata gli aveva infine dato ragione, rivelando al mondo la verità scioccante che proprio sotto la cesta Millet aveva effettivamente dipinto un parallelepipedo.

Oggi, quando riconosco ancora me stesso da ragazzino in quella terra decorata così bene dalla luminosità pensosa del tramonto, ricca quanto basta di promesse di sopravvivenza ma anche custode di una sepoltura segreta, quasi certamente quella di un figlio abortito della coppia di giovani sposi contadini, un feto rimasto incompiuto dopo una gravidanza andata male, una vita inesistente che nessuna terra consacrata avrebbe mai potuto accogliere senza contraddire il proprio nome, comprendo come allora, nella mia inaugurale relazione col tempo, quando tutto pareva fatto solo per educarmi alle abitudini, il disincanto abbia invece intrecciato l’accoglienza del non finito e la fertilità concreta delle aspettative col filo di luce della distanza che, proprio come quella che nel quadro separa la piccola bara invisibile dalla guglia di un campanile immaginario, passa tra il dono della pace e la promessa della felicità. È per questa ragione che, anche ripercorrendo con la memoria quei tempi ormai lontani e nonostante la resistenza opposta sul momento dalla loro naturale immaturità, posso dirmi assolutamente certo di non aver vissuto un solo giorno di vita senza patirne pure l’incombenza e desiderarne l’infondatezza, e di non essere mai riuscito a dimenticare nemmeno per un istante, sebbene ci abbia provato davvero innumerevoli volte, che la mia esistenza, nel suo sempre più piccolo, a modo suo e per qualche motivo sta durando ancora.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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