Credo sia tempo di precisare che, come chiunque altro, anche il protagonista della vicenda che sto raccontando (caso mai essa ne abbia davvero o solamente uno), ovvero l’uomo disincantato, ha un nome – Peter – e un cognome – Burgess – e che entrambi coincidono perfettamente con i miei, in quanto l’uomo disincantato, cioè Peter Burgess, sono appunto io.
Eravamo nell’epoca in cui la società borghese e capitalista era già bell’e fatta da un pezzo, dopo avere a suo tempo folgorato il feudalesimo con le luci del suo stesso tramonto, e l’alba dell’età industriale, già duramente transitata attraverso una fitta teoria di criticità e di conflitti, aveva oramai assunto alla vista l’aspetto e alla percezione la consistenza di un generoso mezzogiorno; nel contempo, il fervente e febbrile incremento dei domini dell’intelletto e della razionalità che aveva contraddistinto i tempi moderni, portando gli uomini ad ammettere, in linea di principio, la possibilità dell’interpretazione scientifica del mondo mediante il calcolo e la logica, si era caricato, in linea di fatto, di retorica politica e di enfasi tecnologica, preludi ancora inconsapevoli di un nuovo e diverso oscurantismo, vale a dire quello dell’egemonia dell’informazione sulla cultura e della tecnologia sulla scienza, e alla creazione di un sincretistico pantheon di divinità alternative, di totem differenti e di altre superstizioni: in parole povere, eravamo negli anni ’70 e, per la precisione, alla fine del mese di luglio del 1976.
Peter Burgess viveva allora quell’inquieta condizione storica di passaggio in una forma ibrida di straniante emotività alla quale egli aveva dato una volta per tutte il nome convenzionale di disincanto, non del mondo – come aveva immaginato a suo tempo Max Weber – ma dal mondo, nel duplice senso di “proveniente da” e di “rispetto a”.
Il suo disincanto era una sorta di disaffezione assoluta e fondamentale, preventiva tanto nell’incoscienza quanto nella consapevolezza, che lo rendeva incline a vivere senza slanci e poco propenso a prendere iniziative, ponendolo in relazione con gli eventi esterni sempre a partire dal convincimento che questi non lo riguardassero oppure che egli non fosse comunque in grado di giocare nella partita dell’esistenza un ruolo seriamente impegnativo e interessante.
Gli sembrava di avere dentro il desiderio latente di qualcosa che non poteva definire o forse di qualcuno che non aveva mai conosciuto o ancora di un amore senza aspettative, mentre avvertiva con saltuaria angoscia tanto la mancanza di ogni singola cosa voluta quanto la sua relativa inadeguatezza.
Il disincanto si esprimeva anche nella mimica spesso impassibile della sua faccia e nell’indolenza dei suoi atteggiamenti e posture; così come nella propensione a ridurre allo stretto necessario le occasioni per socializzare e nell’attitudine a troncare, anche bruscamente e senza un plausibile motivo manifesto, i legami affettivi davvero solidi e antichi, dirottando la sua preferenza su quelli più transitori e arrangiati. Il disincanto lo poneva in un stato emotivo persistente di provvisorietà e in un’attitudine all’incostanza che, tra le altre cose, lo inducevano a negare, non senza apprensione, il trascorrere del tempo, ponendolo in bilico tra un passato sempre idealizzato e un futuro soltanto immaginato, da guardare comunque da fuori, col medesimo abbandono e disperando nelle possibilità concrete offerte invece dal presente.
Grazie alla scoperta e all’uso del DOG – una droga sintetica in confetti di cui in seguito si dirà con maggior precisione e dalla quale Peter era comunque divenuto dipendente – egli era riuscito a trasfondere nel suo disincanto originario una sorta di bipolarità, come in una cella galvanica, dando un polo positivo a quello negativo e attivando così l’energia di una “pila” sentimentale, capace di operare in regime di “corrente continua”. Senza mutarne la natura e le caratteristiche, il DOG aveva agito sul disincanto come ci capita di fare a volte con un guanto, vale a dire rivoltandolo: il guanto rimane quello di prima eppure nel contempo esso è anche qualcosa di radicalmente differente, ovvero il suo rovescio.
Il suo disincanto aveva in tal modo iniziato a mostrare attitudini recondite e possibilità inesplorate: ben lontano dal coincidere con una sorta di generica tristezza inerte e fiacca o peggio con la depressione, esso rasentava invece non di rado quella che oggigiorno gli psichiatri definiscono “mania”, anzi, in seguito all’assunzione regolare del DOG, mania e disincanto erano ormai tessuti in un ordito molto difficile da dissezionare. Ribaltato in quanto mera dedizione alla stasi e all’impotenza, il disincanto si era così strutturato in lui quale condizione riflessiva e umorale imprescindibile dell’agire e, soprattutto, come presupposto emotivo di tutti i progetti di qualche rilievo, come, appunto, quello di vincere il torneo di Wimbledon l’anno dopo, in occasione dell’edizione del centenario. All’epoca, infatti, tutta la vita di Peter Burgess ruotava intorno a quel proposito, ne era assorbita in modo tale che, tra la pianificazione e lo svolgimento degli allenamenti e lo studio a tavolino delle geometrie di quella che egli – convinto com’era di poter decifrare matematicamente il tennis in quanto “gioco non cooperativo” caratterizzato dall’applicazione razionale di una “strategia del massimo vantaggio” in assenza di un punto d’equilibrio – aveva battezzato la “partita perfetta”, gli rimaneva ben poco tempo per fare altro.
Tutto ciò aveva nondimeno un’ineluttabile e stranamente profonda sfumatura di carnalità e di ridicolo. Senza considerare questi due elementi, infatti, non sarebbe stato possibile comprenderne il sublime terribile e la specifica tragicità, perché non c’era progresso verosimile rispetto a tale condizione, che con buona approssimazione potrebbe essere definita “poetica”, né un varco verso un’etica e prosastica rimozione di questo sconcertante destino assoluto, che poi sarebbe stato essenzialmente fedifrago e antiestetico.
Peter galleggiava quindi sempre in bilico, come il corpo di Dafne, martirizzato dalla terra matrigna in forma d’alloro, simbolo aulico della poesia ma anche spezia prediletta dagli chef per la preparazione di arrosti succulenti. Esattamente come nel mito egli si trovava di fronte a un groviglio inestricabile di elementi: il desiderio del dio, la bellezza minacciata della ninfa, la sua paura, il suo grido d’aiuto, e infine la comparsa dell’albero, col suo valore simbolico e quello d’uso, storico e quotidiano, in cucina. Nei migliori tra i suoi desideri oggettivi stavano quindi, come fondamenta residuali nonché perenni al di qua di Dafne, la solitaria, imperitura desolazione della voluttà del dio Apollo, frodato in extremis della sua preda, e il non meno voluttuoso compiacimento di un qualsiasi cuoco di fronte a un arrosto ben riuscito.
Simmetrico inoltre all’entusiasmo per tutto ciò che gli si proponeva anche solo pressappoco eccezionale, mentre si infervorava nell’illusione che la mediocrità, intesa quale meccanica inclinazione di ogni cosa verso un punto mediano, potesse incontrare la resistenza definitiva di alcune zone franche, il rovesciamento del disincanto prodotto in lui dall’effetto del DOG presumeva anche un fastidio veemente e un disprezzo esacerbato per tutti gli atteggiamenti e le abitudini che facevano dell’esistenza un dato di fatto. In altre parole, la vita della gente comune, bellamente assuefatta alla propria quotidianità ripetitiva e inesorabile, gli appariva come un’agghiacciante perdita di tempo, come il più religioso, e quindi miserabile, degli inganni possibili.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti