L’UOMO DISINCANTATO – In cammino verso il tennis (2)

La scelta del tennis come disciplina d’elezione era scaturita spontaneamente da alcuni presupposti, tutti riconducibili allo strano assemblaggio del caso col destino, addossati l’uno all’altro lungo il bordo reciproco che in altri tempi, meno moderni e chirurgici di quelli, sarebbe stato un confine e che era invece diventato una sutura. Per prima cosa, a motivo del mio carattere poco propenso a socializzare, avevo escluso gli sport di squadra, verso i quali nutrivo in verità anche una strana attrazione di principio, come mi capitava sempre nei confronti di tutto ciò da cui mi sentivo emarginato per natura, che poi però si lasciava disinnescare in fretta e facilmente da un disinteresse di fondo o da un’intolleranza di fatto. Non ero nato per limitare la mia unicità al ruolo di singola ruota di un qualsiasi ingranaggio e non volevo avere come scopo specifico quello di dare un contributo più o meno importante al gioco: desideravo essere io stesso il gioco tutto intero, rispecchiarmi completamente nei singoli gesti atletici e nella tessitura degli schemi tattici come se fossero altrettanti specchi d’acqua cristallina, molto simili tra di loro e proprio per questo anche profondamente diversi, in attesa di essere completati, ciascuno a suo modo, dall’immagine riflessa del volto di un solo Narciso. E poi c’erano gli odiosi eccessi di cameratismo, la promiscuità esasperata e non di rado volgare, la condivisione spossante e quasi assoluta del tempo, quindi povera di quelle silenziose “radure” di solitudine – come mi piaceva chiamarle – che tanto amavo e che mi erano necessarie per impedire alla vita reale di banalizzarmi, insomma un’esistenza disciplinata dal grigiore del suo sacrificio, sulla quale non aleggiava alcuna grandezza ma solo il puzzo acre del sudore e del cloro negli spogliatoi e poi, come una descrizione sottintesa, gli sbuffi di deodoranti dozzinali e i residui, appena più evasivi, lasciati qui da uno shampoo troppo profumato e là da un dopobarba scadente. Anche la prospettiva di diventare la stella di una squadra, e quindi di guadagnarmi l’ammirazione dei miei compagni e quella dei tifosi, non smuoveva in me suggestioni realmente seducenti giacché ero e sono ancora ben consapevole di quanto certi entusiasmi di massa galleggino in realtà su foschie di doppi sensi e di secondi fini rese a loro volta sempre più torbide dall’assuefazione a eccessi collettivi di rivalità e di partigianeria nei quali finiscono per confluire, un po’ come accade coi detriti durante un’alluvione quando si propaga l’onda di piena, tutte le ambizioni e le frustrazioni personali. In definitiva gli sport di squadra non sono altro che delle grandi metafore sociali della guerra, con tanto di accampamenti – gli spogliatoi – più o meno disordinati e maleodoranti, di generali – i coach – che danno gli ordini senza combattere, di eserciti – le squadre – che si affrontano sul campo di battaglia con divise differenti, e di nazioni – le tifoserie – che, alle loro spalle, sperano, gioiscono e soffrono compensando la propria impersonalità coi colori generici di una bandiera. Gli sport individuali, invece, rievocano lo spirito antico del duello e, anche nello strenuo agonismo dello scontro più aspro, è impossibile non riconoscere in tutto ciò che li circonda e che da essi scaturisce i tratti limpidi di una recondita compostezza, del richiamo a una nobiltà ideale, come se ogni cosa accadesse – e fosse quindi diversamente già avvenuta – nella fissità della tela dipinta di un quadro raffinato. Perfino l’entusiasmo del pubblico, fatto da appassionati e non da tifosi, nonostante i modi più o meno infervorati di esternare la partecipazione che distinguono, per esempio, gli amanti della boxe dai patiti degli sport equestri, trattiene sempre in sé qualcosa di ugualmente meravigliato, così come, a prescindere dalle differenze che accampano nel mostrarsi, la luce in un sorriso di Grace Kelly o lo spazio in uno sguardo di Audrey Hepburn, ovvero quel caratteristico stupore elegante e a tratti appena un po’ rigido che rimanda all’impercettibile disorientamento dei passi e all’attenzione tanto sincera quanto smarrita dei visitatori di una pinacoteca.
La propensione sempre più radicale che coltivavo verso gli sport individuali era eccitata dalle tante suggestioni che la mia immaginazione di ragazzino curioso e acculturato non riusciva a tenere a bada: dalle memorie erudite dei duelli tra Ettore e Achille e fra Turno ed Enea, sui quali tutto sommato aveva preso forma l’epica dell’Occidente, alla rievocazione non meno colta degli altri, più tragici e complicati, che quello stesso, epico Occidente avevano invece messo in discussione, opponendo Tancredi a Clorinda e Amleto a Laerte; e poi le proiezioni, vissute stavolta soltanto nei panni di sedotto e insaziabile spettatore, delle tante varianti sul tema del duello che mi venivano proposte dal cinema, soprattutto da quello americano, come per esempio lo scontro all’ultimo sangue tra lo sceriffo fragile ma coraggioso e i suoi vendicativi antagonisti in “Mezzogiorno di fuoco” o le reiterate messe in scena della famosa sfida all’O.K. Corral, in cui la semplificazione per immagini raggiungeva lo scopo di ridimensionare – proprio nel momento in cui, insieme alla letteratura, anche la storia si affacciava sull’età della sua debolezza più estrema – la gravità morale e creativa delle parole a uso e consumo di un pubblico conciliante e massificato a dovere.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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