L’UOMO DISINCANTATO – In cammino verso il tennis (1)

Considerando i fatti a posteriori non mi è difficile rintracciare anche nelle origini della mia grande passione per il tennis le caratteristiche certe di una delle tante sollecitazioni, all’epoca naturalmente confuse e incompiute come la promessa del vino nuovo quando sta tutta nel ribollire del mosto dentro i tini e nell’affiorare selvatico del cappello delle vinacce, che mi venivano dal disincanto. Era stato infatti proprio quel modo tanto inconsueto che avevo di percepire la vita e di entrare in rapporto con le cose attraverso lunghi varchi di pensosa lentezza, all’epoca contraddistinto ancora dall’assoluta centralità della sfera emotiva maggiormente legata alla cognizione del tempo, che mi aveva spinto, rovesciandosi in una sorta di stizza verso me stesso tanto ingenua quanto convulsa per via del tipico desiderio di omologazione e di popolarità tra i coetanei che è caratteristico dell’infanzia e della prima giovinezza, a reagire in nome di una generica ansia di normalità agli estremismi intellettuali della mia natura che appunto tendeva invece a smaterializzare qualsiasi nesso tra me e la mia esistenza. I miei compagni di scuola o anche solo di giochi mi percepivano infatti come un elemento estraneo al loro mondo lieve, fatto di entusiasmi avventurosi e di pensieri acerbi ma pieni di buone promesse come le nespole appena raccolte, di fatto già mature e malgrado ciò non ancora commestibili, e quindi mi cercavano di rado e quasi sempre mossi soltanto da una sciatta – e in un certo senso anche un poco arrogante –  condiscendenza. Per questa ragione tendevo a incupirmi, aggravando la solitudine materiale nella quale mi trovavo con un senso di inevitabile impotenza, incoraggiato nel mio abbandono da un’altra formidabile arma del disincanto: la pigrizia; la stessa che oggi, mutando di stato ma non di natura, si è ormai trasfigurata nella propria sembianza più essenziale – una diffusa e scontrosa freddezza che mi porta a ritenere il “dolce far niente” non più una condotta disonorevole ma una vera e propria strategia avente per obiettivo finale quello di assicurare alla mia vita l’unico contenuto del tutto coerente col suo significato – un po’ come succedeva una volta a quei fiori che le più delicate tra le ragazze sentimentali riponevano in mezzo ai fogli dei loro diari e quaderni e che, essiccandosi, prendevano infine una consistenza a metà tra la paglia e la carta velina, lasciando memoria della loro vita a una tenue apparenza e a qualche leggera traccia di linfa sparsa sulle pagine.
All’epoca però mi trovavo ancora nel pieno di quell’età dell’innocenza in cui sarebbe stato impossibile per il disincanto non adattarsi all’ingenuità benevola che la contraddistingue e, in ragione di ciò, mentre ero già emotivamente certo della mia totale repulsione per l’abitudinario squallore della vita della gente comune e per la modestia indecente delle cose quotidiane, ero pure ben lontano dal rendermi conto di quanto l’alone di desiderabile rarità che invece mi pareva avvolgesse quelle che consideravo straordinarie non fosse altro che un abbaglio della mia appassionata volontà di ragazzino ancora alla ricerca di una bella esistenza alla quale concedersi. Ritagliata con cura sullo sfondo di queste contingenze, la mia pigrizia era a sua volta ancora una passione – quindi ben lontana dal trasformarsi nel mellifluo scetticismo che in seguito si sarebbe accartocciato sempre di più sull’inesorabile indebolimento e sulla fatale riduzione di ogni sforzo, mio o di altri, teso ad attirarmi verso una qualunque circostanza della vita reale – e per questo motivo dotata di una certa solidità, capace di sorreggere e interpretare nel migliore dei modi la naturale sottigliezza dei miei entusiasmi, ristretti alla sola vita intellettuale e dedicati, a causa della percezione del tempo che era allora per me tutto il disincanto possibile, ai libri di storia e ai romanzi.
Proprio la natura passionale, e quindi in fondo dinamica, del genere di pigrizia che mi suggestionava nell’adolescenza aveva finito per ricoprire un ruolo di primo piano in quella che oggi, usando tutta la poca nostalgia che mi rimane, riesco ancora a chiamare la svolta tennistica della mia vita. Infatti la pigrizia non solo non aveva intralciato la genesi del proposito di reagire agli eccessi contemplativi del mio stile di vita mediante il tennis, ma in un certo senso l’aveva addirittura favorita non appena tali eccessi erano stati contaminati dagli obblighi imposti dalla scuola. Nel diventare anche materie di studio, infatti, sia la storia che la letteratura avevano integrato in loro stesse una sorta di anomalia – simile a quei disturbi di ricezione dovuti alla bassa intensità del segnale che nelle prime televisioni portatili fornite di piccole antenne autosufficienti finivano per essere assimilati giocoforza alla visione delle trasmissioni, quasi che per scenografia queste prevedessero per davvero la caduta persistente di una certa quantità di nevischio – e ciò ne aveva a poco a poco messo in discussione prima tutto il fascino e poi, in parte, anche l’autorità, rendendole, se non meno importanti in assoluto, di sicuro vulnerabili rispetto alla possibilità di accantonamenti improvvisi e di periodiche dimenticanze.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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