Per esorcizzare in qualche modo la rinuncia, ormai accettata tacitamente da entrambi, al futuro della loro convivenza, Elias e Milica trascorsero gran parte del tempo che avevano ancora l’opportunità e la voglia di condividere sulle rive del fiume Wandle, dedicandosi soprappensiero alla pesca delle trote. La pesca era infatti un’occupazione che in un certo senso li riconciliava con la prossimità delle rispettive esistenze dopo i soliti eccessi di passione e d’indifferenza che dovevano affrontare ogni giorno senza soluzione di continuità . Accadeva infatti che le loro vite, nel quotidiano molto simili a flutti tempestosi, trovassero una pace naturale nell’essere poste di fronte allo scorrere tranquillo e quasi insonoro di acque dall’indole tanto diversa. Il fiume era quindi per loro l’immagine riposante del dover essere altro, un monito tuttavia puramente visivo e perciò privo di quel rigore precettistico che avrebbe potuto dare adito a orgogliosi arroccamenti e quindi a ulteriori contrasti. Andando a pescare, entrambi riacquistavano il controllo delle loro reazioni, grazie anche a una sorta di decompressione dei pensieri che si facevano più scorrevoli e poco inclini ad avvitarsi o a impuntarsi; l’acqua del fiume dava in ciò il buon esempio, aggirando con morbidezza le pietre e gli ostacoli galleggianti, forte di una corrente dolce che, a differenza di quelle marine, non si scomponeva mai nell’impeto di un’onda.
Di tanto in tanto i due avvistavano eccitati qualche grossa trota scura, resa però quasi cristallina dal suo guizzare a scatti sotto i vasti lampeggiamenti della luce che batteva il pelo dell’acqua più bassa, in prossimità delle sponde. Le trote, dopo aver abboccato all’amo, iniziavano a ruotare il loro corpo con perseveranza, affidandosi all’ultima, disperata astuzia che avevano a disposizione, nonostante la robustezza della lenza e la tenacia della forza umana le trattenessero, trascinandole fatalmente a poco a poco verso terra.
Nell’aria le loro pinne odoravano del vento del giorno, dedite com’erano alla quotidianità senza futuro di un profumo occasionale; e di lì a poco, a cattura ultimata, solo erba, aghi di pino e funghi avrebbero ospitato il peso agonizzante dei loro corpi ancora vivi.
Quando poi alla fine giungeva la morte, essa non era mai immobile ma sempre scivolosa, persino tagliente di scaglie ancora bagnate dai vortici e dagli spruzzi di quell’acqua fluviale abbandonata al suo imperturbabile mormorio. La linea immaginaria che, come il disegno di una rotta sopra un antico portolano, univa l’occhio del pesce ormai privo di vita alla sua pinna caudale, invece ancora combattiva nella penosa brevità dei suoi ultimi, meccanici movimenti, alludeva senz’altro, al cospetto delle intuizioni di Milica e Elias, a un futuro in tono minore, a un blando mistero onnipresente e tuttavia felicemente percorribile che in qualche modo, separandoli, li rasserenava.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti