L’UOMO DISINCANTATO – Il pestaggio di Lord Finnegan (3)

Giunsero così di fronte all’ingresso della dimora di Lord Finnegan e i neri cancelli in ferro battuto sormontati dall’emblema araldico della famiglia illustre si schiusero elettricamente come le due valve della conchiglia di un’ostrica sganciate dalla rotazione sicura del coltellino. In attesa che il varco fosse abbastanza largo per passarci con l’auto, Oedipa si girò quel tanto che bastava per rivolgere un inevitabile sorriso di circostanza all’uomo che aveva accanto, quasi disteso sul sedile del passeggero; ma fu appena una curvatura nervosa delle labbra verso il basso, priva tra l’altro di una vera coordinazione con lo sguardo che invece continuava a girovagare frenetico credendo così di far passare la sua impazienza per curiosità.
Entrando, mentre seguiva nello specchietto retrovisore il movimento a rovescio dei cancelli che si richiudevano e che le ricordarono per qualche istante la bocca di una pianta carnivora nel momento in cui intrappola il suo insetto scellerato, prestò attenzione per puro caso al moto oscillante delle sospensioni dell’auto che stavano disegnando con estrema accuratezza lo scorrimento del veicolo su quell’ultimo tratto del viale d’accesso e le sembrò che prima di allora non avessero mai fatto il loro mestiere in modo altrettanto gradevole e perfetto.
Infine si fermò distrattamente, sospesa nell’indecisione assoluta di pensieri appena lambiti da una coscienza dolcemente intorpidita dall’avvento del crepuscolo e dall’ascesa di un’umida foschia a poco a poco sempre più densa e penetrante, spegnendo subito il motore dell’auto per un riflesso condizionato e quasi senza rendersene conto non appena le giunse all’orecchio il suono della ghiaia del piazzale, che scricchiolava sotto le ruote come se tutt’intorno un letto di conchiglie si stesse all’improvviso frantumando.
Il parco torreggiava in un’oscurità ancora imperfetta e venata di tumultuosi profili che si facevano sempre più nitidi col venir meno concomitante dei colori. Si era nel momento dell’accensione automatica dell’illuminazione elettrica e tutte le lampadine del giardino sfarfallavano ancora incostanti tra aloni e riflessi in cerca della piena stabilità mentre appena dietro le finestre dell’edificio centrale altre luci, certamente messe in funzione dai domestici, iniziavano a sfavillare con una tale intensità da suggerire le esatte dimensioni – dal punto di vista di Oedipa straordinariamente grandi – della residenza aristocratica; e così questa sembrava sbalzata come un altorilievo scolpito su un blocco di tufo poroso immerso in uno stagno d’acqua bassa, tra la buia armonia liquida dell’immobilità circostante, carezzata dagli occhi invisibili e attenti degli animali notturni e da quelli non meno accorti degli amanti clandestini, e grappoli d’uva di carta stagnola, appesi a viti favolose e fatti apposta per riverberare sul mondo la luce del chiaro di luna finalmente preservata dal suo stucchevole romanticismo.
Proprio di fronte alla grande casa si stagliava, inquadrato da alte bordature di tigli e carpini, un suggestivo labirinto, creato con l’agrifoglio giapponese affinché le alte siepi, grazie al loro tipico fogliame tenero e arrotondato, fossero all’occorrenza attraversabili senza danni, a differenza di quelle affilate e taglienti dell’agrifoglio comune, da quei visitatori eventualmente colti all’improvviso da una crisi d’ansia claustrofobica. Le sue dimensioni erano nel complesso contenute ma l’aspetto ad anelli concentrici era reso sinistro dalle numerose irregolarità del tracciato e dall’identica curvatura delle pareti che sollecitavano fatalmente lo stesso smarrimento di un capogiro. L’ultimo anello si chiudeva, imitando l’abbraccio distante e cerimonioso che ai compleanni si dà soprappensiero al festeggiato con tutto il distacco consentito dall’ineluttabilità, su uno spazio delimitato a destra e a sinistra da due panche secentesche in peperino e centrato, come una girandola sul suo perno, intorno a un finto camino delle fate, imitazione a scopo decorativo di uno di quei rilievi che in natura sono composti da un prisma di roccia friabile rastremato verso l’alto e sormontato da un cono più compatto che lo protegge e che secondo la leggenda sarebbero opera di creature soprannaturali. A Oedipa sembrò di primo acchito solo un graffio sul negativo di una fotografia troppo scura.
“In considerazione del fatto che devo sdebitarmi assolutamente con lei offrendole almeno una buona tazza calda di tè – a proposito, le piace quello bianco che chiamano Silver Needle? a me moltissimo! sa, pare che i cinesi lo facciano utilizzando solo le foglioline apicali della pianta, che raccolgono di buon’ora nelle mattine brumose d’inizio aprile -, non mi farà il torto di entrare in casa senza passare attraverso questo labirinto che è una mia aggiunta agli antichi giardini di questa dimora e che – ora forse sto per stupirla – ho disegnato, forse alla buona ma senza suggerimenti, io stesso!” disse Lord Finnegan con un tono di voce tornato nel frattempo, senza perdere una sola sfumatura della sua composta cortesia aristocratica, a suonare smagliante e volitivo dopo gli eccessi di languore e di cordoglio appena trascorsi, in merito ai quali egli già da un po’ si tormentava a mente fredda, soffrendo anche per uno sgradevole retrogusto d’irritazione, attribuendo loro la colpa dell’immobilità equivoca, imbarazzante e poco virile che gli aveva impedito di reagire al silenzio che si era impossessato dell’intero tragitto in auto.
Mentre scemavano i livelli di adrenalina, i dolori si stavano normalmente riacutizzando e questo fatto, in combinazione col ritrovato vigore del sentimento della dignità nobiliare, sfregiato dall’infortunio coi teppisti ma tornato integro grazie al rintocco familiare dei propri passi di membro della Camera Alta del Regno sulla terra consacrata dai suoi antenati, un po’ come capita a un bambino molto timido, che si sente spaesato ovunque tranne quando si trova in casa sua, tra le mura amiche dei suoi giochi più spensierati delle quali conosce alla perfezione ogni dettaglio, dalla crepa sul soffitto allo strappo nella carta da parati, stava ricostruendo in modo tanto ordinato quanto inconsapevole il confuso e imprevisto desiderio fisico che poco prima l’aveva sospinto con tanta forza verso quella donna americana e borghese, della cui avvenenza, dopo anni di distratta frequentazione reciproca, si era infine reso conto – non senza percepire in sé l’oscillazione di un ambiguo stupore – per la prima volta. Nonostante gli infantilismi bizzosi della sua indole e le induzioni temerarie dei suoi pensieri gli avessero poi reso spiacevole per tutto il tempo il viaggio in automobile con lei, precipitandolo – similmente al ritrarsi rapido e inesorabile delle acque del mare lungo il bagnasciuga subito dopo un’onda potente – in una condizione di gelido distacco, ora Milord era finalmente approdato a un’intenzione determinata, tatticamente chiara ma ancora povera di contenuti strategici; e proprio di questa il labirinto, che è il luogo sagace del differimento di ogni soluzione, del timore connesso con la via d’uscita, che infatti esso complica ad arte camuffando la paura inconscia e sottile di non essere all’altezza della meta finale con quella immediatamente più credibile di non raggiungerla mai, si presentava come l’alleato decisivo.
Del labirinto, che si ergeva di fronte a lei come una massa opaca ed esitante di verde sempre più scuro, Oedipa soffriva invece, come donna e come americana, l’istigazione feroce all’incertezza di una geometria formalmente negativa, che non a caso nel mito proprio una donna aveva domato suggerendo con felice pragmatismo l’espediente della matassa di filo. La natura e la formazione di Oedipa erano incompatibili con l’indecisione che in quanto tale il labirinto le imponeva e che dal suo punto di vista coincideva con un’inesplicabile assunzione di disonestà nei confronti non solo dell’istinto di sopravvivenza ma anche e soprattutto verso la stessa nobiltà dell’idea di salvezza. Entrare nel labirinto significava per lei assumere il punto di vista del dubbio, accettare il primato assoluto dell’intelligenza dell’analisi sull’eroismo della sintesi, della meditazione sulla decisione.
“Non si dovrebbe mai mettere un americano medio di fronte a un problema metafisico”: questo aveva sempre detto e sostenuto Lord Finnegan che però, essendo inglese, e quindi incapace di resistere alla tentazione di una scommessa, forse lasciandosi prendere anche la mano dall’entusiasmo vendicativo dell’antico colonialista ripudiato, fatto salvo il minimo indispensabile di galanteria con un cortese passo di lato, sottrasse di fatto a Oedipa ogni possibilità di scelta esortandola a entrare.
L’interno del labirinto le diede la sensazione di una frattura scomposta inflitta allo scheletro del mondo: ne immaginava il disegno visto dall’alto, che come una radiografia le avrebbe rivelato il vero aspetto del danno, indicandole anche con sicurezza la cura, cioè la via d’uscita, per quel male del quale lei conosceva invece dal di dentro soltanto il dolore indecifrabile, man mano evocato dalle livide emorragie dell’oscurità, dalle tumefazioni umide e verdastre delle siepi e soprattutto da quel continuo scricchiolio di ossa rotte che era l’essenza stessa dei suoi passi. Tuttavia non c’era per lei la possibilità dell’altitudine né di un diverso punto di vista e nel continuo battere e levare dei refoli brevi di un vento sempre più freddo, che si avvitavano e si scioglievano a ondate regolari come anime del Purgatorio diventate d’un tratto impazienti di liberazione, le pareva di cogliere la sua stessa ansia di riscatto, fatta con la medesima delicatezza, tra propositi poveri e disordine lieve. In alto infatti potevano stare soltanto gli occhi attenti e affamati dei gufi, delle civette, dei barbagianni, in cerca di prede e quindi disinteressati alla visione del dedalo, dal quale all’occorrenza sarebbero potuti evadere semplicemente spiccando il volo, dimostrando così che la chiave della soluzione al problema che pone non sta nel trovare la via d’uscita dall’interno ma nel poterlo sovrastare con consapevole indifferenza dall’alto.
Infine però, quasi spintonandosi sulla soglia con ostentata allegria, i due giunsero finalmente nel cuore del dedalo, nel suo solenne e decorativo anello centrale, sovrastato dal finto camino delle fate e circoscritto dalle due panche secentesche, che, com’era prevedibile, giacché per destino dai labirinti non si esce mai dal centro, non aveva una via d’uscita diversa dal varco d’ingresso; e fu proprio in quello spazio così angusto e definitivo, e come se non bastasse confinato tanto severamente anche dalla foschia e dalla notte, che il desiderio di evasione di Oedipa scemò in un’incertezza spensierata appena prima di accondiscendere liberamente al piacere della rassegnazione.
I punti di vista dei due finirono così per coincidere in un’unica prospettiva per la quale le lacerazioni impresse dai molti tentennamenti nel tracciato del loro cammino trovavano guarigione grazie all’abbandono emotivo e disimpegnato al solo piacere del desiderio della meta finale, a prescindere dal suo effettivo raggiungimento. Non inaridisce il giardino dell’Eden soltanto perché mancano frutti commestibili sull’albero del bene e del male: e infatti lo stato di blanda prigionia, di momentaneo arresto della ricerca di una scappatoia nel chiuso abbraccio di quell’ultimo anello centrale del labirinto, dove le foglie delle siepi vibravano più che altrove e senza sosta per i vortici del vento producendo un sussurro costante, quasi sempre morbido ma a tratti anche in grado di accendersi in scosse taglienti, che faceva pensare al cicaleccio di un popolo di lillipuziani curiosi nascosti nell’oscurità, si sbrogliò presto, come il fiocco decorativo di un pacco regalo, nella gioiosa sospensione dei reciproci sorrisi.
Mentre Lord Finnegan, da dietro, le slacciava e le abbassava i pantaloni, Oedipa già da tempo godeva della propria rinuncia alla decisione e della sua resa a un mistero inconsueto, perfettamente compatibile con l’esercizio della volontà, trovando così un accordo del tutto imprevisto con le aspettative dell’uomo che stava per possederla.
Quando, piegandosi docile e senza cercare mai sproporzionati contrappesi sentimentali nella prevedibilità di qualche bacio, posò le mani sopra la lastra di pietra della panca di sinistra, sentì sussultando di meraviglia che tutta la sua esistenza, nel corrispondere con tanta naturale dedizione alla semplicità di un desiderio assolutamente vero e decifrabile, si ingigantiva, rifluendo con epica normalità nel silenzio fragoroso della vita reale. Tutto ciò che per non ucciderla l’aveva tramortita con la lontananza, ammucchiandola come cenere penitenziale al centro di una quotidianità fatta solo di margini, ora si ritirava indolente, col passo dell’incantesimo spezzato, intorno alla banale oggettività quasi insignificante di un adulterio che poteva però vantare il pregio irreparabile – e anche tutta l’attitudine alla bellezza – di una redenzione consumata all’ombra di un camino delle fate.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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