La più sollecita e appassionata nel prestare i primi soccorsi a Lord Finnegan era stata Oedipa Boot, la quale provava nei confronti dell’aristocratico segretario generale del comitato per le celebrazioni del centenario del torneo – che a sorpresa aveva anche abbattuto ogni distanza di casta tra di loro designandola alla carica di sua sottosegretaria facente funzioni – quel particolare tipo di rispetto appassionato e un po’ sognante che spesso e volentieri molte Cenerentole borghesi nutrono nei confronti di un principe qualsiasi e che è poi alla base della fortuna commerciale delle riviste di gossip.
Non appena gli inservienti ebbero deposto Milord sulla poltroncina in vimini ricoperta con morbidi cuscini di velluto verde e viola, Oedipa si era messa prontamente a sedere accanto a lui, ascoltando con apprensiva partecipazione il racconto della sua disavventura senza mai smettere di detergere le sue ferite – usando sul momento soltanto un asciugamano bagnato – e di mettere la borsa col ghiaccio sulle tumefazioni apparentemente più gravi, premendola ogni volta con energica delicatezza. Lungo il fluire doloroso della testimonianza del malconcio, in fondo alle pause tra una frase e l’altra, ella aveva l’impressione di ascoltare – come fossero lì per lei sola – impercettibili e lievi feritoie in cui il respiro diventava prima un sospiro e poi assoluto silenzio, minime fratture cristalline attraverso le quali le pareva di raggiungere insieme alla densità quasi fisica dei sentimenti di Lord Finnegan anche un’altra chiave di lettura di quella circostanza, un’interpretazione parallela e ineffabile che la coinvolgeva di nascosto e all’insaputa di tutta la gente che si stava accalcando intorno a loro. Oedipa si sentiva misteriosamente reclamata dall’unicità di quel privilegio, messa di fronte alla gioia di un’attitudine ancillare riscoperta in tutto e per tutto ancora vitale e possibile, come l’erba verde rinata dopo una sola notte di pioggia in un campo arso per mesi dalla siccità. Qualcosa di lei – simile a un piccolo germoglio, cedevole ma incredibilmente intatto, oppure a un giunco accomodante, sormontato senza danni dalla piena del fiume – aveva ritrovato infine la pienezza fertile e originaria di emozioni perdute, un recondito stralcio di vita interiore messo a lungo da parte per via dell’abitudine alla dimenticanza, alla rimozione sistematica dell’attesa, operata giorno dopo giorno come un merletto delle Fiandre tra gli spilli ben confitti nel tessuto di una vita famigliare spesa per intero a salvaguardare l’apatia quotidiana dell’equidistanza tra un marito da sempre distante e una figlia sempre più indecifrabile.
Mentre teneva davanti agli occhi l’immagine diversa di quella sua passione perfettamente mimetizzata nella mirabile inquietudine della circostanza, Oedipa si prendeva cura di Lord Finnegan e si sentiva piacevolmente libera di sprofondare nello spirito semplice di una favola per bambini potendo fare a meno addirittura di avere a disposizione una storia da raccontare; godeva – allegra nonostante il peso dell’apprensione – di quella sua fortunosa poltrona in prima fila pur standosene immersa in una narrazione astratta, esplicita soltanto nelle fattezze – radenti l’improvvisa abbondanza di luce – e nella voce levigata del ferito, così come nella leggerezza delle garze e dei batuffoli di cotone che le carezzavano la mano e poi nella complicata sensazione olfattiva che, data l’estrema vicinanza, le impastava proprio sotto il naso odori di terra bagnata, di sangue e sudore, di disinfettante, di acqua di colonia pregiata e di sapone speziato al sandalo e alla cannella.
Oedipa accompagnava il racconto dei dettagli dello sciagurato episodio da parte di Lord Finnegan alternando brevi esclamazioni di pietosa costernazione a commenti di generico biasimo circa il decadimento dei costumi e il dilagare della delinquenza e della maleducazione. Tutto in superficie procedeva dunque secondo copione rispondendo perfettamente alle naturali aspettative degli spettatori; ma dietro quel paravento di normalità iniziava a covare qualcosa che era destinato ad avere effetti imprevisti e notevoli. Se Oedipa, infatti, stava esplorando una realtà parallela all’evidenza, che andava complicando la sua visibile pietà solidale con la sorprendente vertigine di una voglia segreta, dal canto suo Milord, tanto accalorato dal suo racconto quanto sfinito dalla disavventura, si stava lasciando tentare, come il trotto fattosi improvvisamente irrequieto di un cavallo altrimenti ben arginato dalle redini del suo driver, da un parziale abbandono al tepore imprevisto che gli veniva dal contatto sempre più ravvicinato con le forme toniche della sua soccorritrice. Il naturale fastidio – peraltro già formalmente contraddetto ai tempi della nomina di Oedipa a sottosegretaria facente funzioni – che aveva sempre professato in pubblico nei confronti di quella borghese donna americana, quindi dal suo punto di vista per principio incivile, stava ora vacillando problematicamente fra gratitudine, tenerezza e desiderio, un po’ come la neve appena caduta, che resta ben fredda senza rinunciare ancora al privilegio di essere anche soffice. Egli si stava infine commuovendo di fronte a quello slancio istintivo, così ricco di docile premura, mentre, ispezionando con discrezione la generosa scollatura di Oedipa, benediva la naturale propensione degli americani alla generosità.
Spartendosi quanto basta, come fosse tutte le pieghe di un foglio di carta sottile modellato in un origami, Lord Finnegan fece largo d’un tratto alle molteplici conseguenze di un più soffice istinto di conservazione, lasciando infine che queste affiorassero, similmente a quanto avviene al soffio di una sorgente sottomarina d’acqua dolce, tra l’acuto dolore fisico, il sentimento penetrante della sconfitta appena patita e il suono sordo delle parole del suo racconto mescolate al brusio graduale e invadente di quelle di tutti i presenti. Era una deviazione emotiva improvvisa e accidentale, l’avvio di un processo di riparazione dell’autostima ferita e della dignità oltraggiata che inevitabilmente passava per l’eccitazione, prima morale che fisica, che la sollecitudine incondizionata di Oedipa Boot nei suoi confronti gli provocava. Le oscillazioni tormentate del suo inconscio, che in quel momento fibrillavano rapidissime alla maniera dell’ago di una macchina per cucire, stavano rammendando lo strappo dolente, conducendo l’imbarazzo verso un’ammissibile giustificazione e rettificando la vergogna col decoro riconquistato.
Fu allora che Lord Finnegan, senza pensarci troppo e con ritrovata naturalezza, fece qualcosa di discordante rispetto al contesto socialmente febbrile che fino a qual momento aveva caratterizzato la scena: dopo aver riposto per qualche istante la sua voce nel silenzio, come fosse un paguro in una conchiglia vuota, ascoltò l’eco ideale del proprio racconto ormai concluso dissolversi in spirali di senso via via sempre più larghe, fino a perdersi del tutto nel vocio circostante che il venir meno della comune concentrazione – inevitabile negli assembramenti sollecitati soltanto dalla curiosità – iniziava già a contaminare di chiacchiere divergenti, e rivolto lo sguardo alla sua soccorritrice iniziò a parlare con lei, a tu per tu, poco più che sottovoce, come fossero rimasti da soli.
All’inizio Milord riannodò i fili del discorso rivendicando dal suo punto di vista il fine ultimo dello scontro con i teppisti che, data la disparità delle forze in campo – uno contro quattro – non era mai stato, né d’altra parte avrebbe potuto essere, il successo finale, ma la verifica e la conferma di quei principi di coraggio e abnegazione che costituiscono il mandato culturale di un uomo che abbia fatto del tennis – sport individuale per eccellenza, molto più simile a un antico duello che a una guerra – la propria ragione di vita. La sua decisione di non fuggire, di accettare la sfida ma non la zuffa plebea: questa era la giusta chiave di lettura dell’avvenimento, qualcosa che aveva a che fare direttamente con tutta la distanza che passa tra un qualsiasi bullo di strada e un vero aristocratico inglese. L’enfasi di quel discorso, paradossalmente esaltata dal tono affievolito ma di nuovo autorevole della voce, incantava Oedipa Boot, che ormai non comprendeva più se i movimenti della sua mano sul volto del ferito fossero ancora qualcosa di diverso da altrettante carezze. All’insaputa di tutti, i due si stavano raccogliendo in un mondo tutto loro, nel quale niente era come sembrava, anche perché all’esterno tutto il resto si era ormai polverizzato in un pulviscolo di variegata indifferenza. Mentre – lasciando tutti gli intenti propriamente terreni del suo sguardo alle forme dolci e condiscendenti della sua infermiera improvvisata – Milord, parlando con una vivacità spontanea e non priva di frivolezza, si lasciava tentare dalla visione mistica del tennis quale surrogato contemporaneo dell’epica cavalleresca, il mondo intorno a loro decresceva e la temperatura diminuiva; e al cadere delle prime stelle sopra l’ultima nebbia si allontanarono insieme, quasi di soppiatto: lui ancora claudicante ma sicuro in direzione della sua casa, lei, avendo appena incaricato un inserviente di avvisare la sua famiglia che avrebbe tardato, pronta a sostenerlo ovunque fosse andato.
Fasciando col braccio i fianchi del ferito che tra verità e ostentazione mostrava di recuperare le forze, Oedipa si era diretta verso la sua auto parcheggiata poco più avanti, prudentemente fuori dal circolo e mimetizzata tra le altre per timore di un atto vandalico dei Porno-Malinconici, dai quali non si sapeva bene cosa aspettarsi ma che di sicuro covavano del risentimento soprattutto nei confronti dei dirigenti del comitato per le celebrazioni del centenario – e tra questi lei era seconda per importanza soltanto a Lord Finnegan – che li avevano deliberatamente esclusi dall’organizzazione.
Una volta nell’abitacolo, il rapido innalzamento della temperatura rispetto all’esterno provocato dall’accensione della ventola del riscaldamento l’aveva fatta improvvisamente avvampare di rossore sulle guance e Milord, colto alla sprovvista e incerto sull’interpretazione da dare a quell’avvenimento, si era premurato di chiederle se per caso l’intimità, benché del tutto innocente, scaturita dall’essere andati via insieme, tutti soli, rimanendo infine così appartati, fosse motivo per lei di qualche imbarazzo. Un simile zelo era per la verità sincero soltanto in parte giacché nella scelta delle parole il gentiluomo aveva prestato grande attenzione a mettere insieme quelle che, essendo nella circostanza potenzialmente tanto neutrali quanto allusive senza comunque risultare impertinenti, fossero anche in grado di provocare meglio nella sua inaspettata infermiera una reazione d’imbarazzo tale da permettergli di coglierla con certezza. E la reazione, in effetti, vi fu. Oedipa si perse già all’inizio della sua risposta, incespicò come se stesse mandando la voce a cercare tentoni le parole senza dar peso all’immobilità raggelata del pensiero e in questa frenetica dissociazione dell’intelletto dal sentimento, che un po’ faceva pensare alla camminata claudicante di Achille, invulnerabile e mortale, appena colpito al tallone, riuscì infine a balbettare per ben tre volte su tre sole parole: “No, perché mai?”. Mise quindi in moto, ancora turbata ma provando a tenere sotto controllo l’eccessiva visibilità del suo respiro accelerato mentre di seguito anche la velocità dell’auto, dopo uno slancio iniziale abbastanza nervoso, tornava con accettabile compostezza nei limiti consentiti. Oedipa sembrava aver ripreso d’un tratto il pieno controllo della situazione perché le parole, in fondo, restano fatte d’aria, qualunque cosa vogliano dire e nonostante ciò che implicano o che addirittura nascondono; è sufficiente quindi lasciarle decantare e poi scorrere via con quel minimo di distacco necessario a intendere che non sono padrone di alcunché, così come le bolle di sapone, nel loro rapido dissolversi, non possiedono mai l’allegria dei bambini. Lord Finnegan avvertì questo repentino assestamento emotivo senza tuttavia riuscire a intenderlo al di là delle sue conseguenze esteriori e finì quindi per subirlo soltanto, con malcelata insofferenza infantile, come una fastidiosa incrinatura nell’amabile atmosfera che si era andata creando tra lui e Miss Boot dal momento in cui l’aveva soccorso. Gli sembrò successivamente di percepire anche un graduale riacutizzarsi dei suoi dolori nel venir meno dell’anestetico psicologico che aveva rappresentato fin lì la distrazione provocata dalla piacevolezza delle cure e dal desiderio. Guardava i movimenti di Oedipa alla guida: la sua concentrazione fattasi improvvisamente silenziosa; il viso tornato a mostrarsi come sempre appena abbronzato e privo di rossore; i capelli biondi che si muovevano con impercettibile morbidezza a ogni curva a volte fino a sfiorarlo appena, come il volo convulso di una farfalla rimasta intrappolata in un interno mentre cerca lo spiraglio che avendola prima ingannata le restituisca poi la libertà; il corpo morbido e longilineo tratteggiato sotto la giacca di pelle color bordeaux, la polo bianca griffata Fred Perry e i jeans bianchi e aderenti in fondo ai quali sbucavano solo per pochi centimetri due caviglie perfette, da danzatrice, appena prima che iniziasse il bordo delle scarpe da tennis; e, così vedendo e scrutando, Milord pensava anche – e ancora sovrapponeva la verità dell’interpretazione a quella della realtà, fuorviato dalla loro illusionistica credibilità speculare. Stava facendo esperienza, a sua insaputa, della complicata prossimità che c’è – e che solo i bambini mostrano davvero di saper riconoscere – tra gli avvenimenti della vita e i giochi di prestigio, un intreccio misterioso e senza redenzione che unisce sempre nel tempo un fatto a un trucco.
Procedendo lungo la china irreversibile di quella che si potrebbe considerare un’infanzia sbagliata, fatta di atteggiamenti poveri di verità anziché, come avviene in quella giusta, di verità povere di atteggiamenti, Lord Finnegan era passato per qualche istante dalla stizza capricciosa dei primi momenti a una sconsolata autocommiserazione venata di sensi di colpa. Sospettava infatti che il gelo calato tanto improvvisamente sui suoi rapporti con Oedipa Boot fosse dovuto a qualcosa di troppo avventato che aveva detto e si sforzava quindi di ripercorrere a ritroso tutti i loro dialoghi, analizzandoli parola per parola e frase per frase. Ben presto, tuttavia, anche quella si rivelò una fatica inutile e infantile, una reazione fine a se stessa non giustificata da una condizione oggettiva, e proprio per questo fu quasi subito sopravanzata da un sentimento di stanca impotenza data poi per buona come noia.
In realtà, invece, nulla era mai cambiato, niente di ciò che doveva accadere aveva smesso di andare per il verso giusto – perché è giusto, proprio come nell’infanzia, ciò che di fatto ci sta bene e che quindi per principio potrebbe anche essere sbagliato senza comportare conseguenze rilevanti.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti