Su tutto, però, dominava con la centralità assoluta e armonica di una sezione aurea e simile a un’enorme bolla di chewing-gum (ma anche, per via del soffio costante dell’aria, al dorso di un grande capodoglio bianco abituato a nuotare in superficie) la copertura pressostatica dei campi da tennis in terra verde di basalto del circolo sportivo che apparteneva alla costosissima scuola cattolica privata “Cephalophores martyrs institute“, retta da una comunità di algide ed evanescenti Suore Domenicane di Santa Caterina che a volte si lasciavano anche vedere, al di là dei cancelli e delle griglie di ferro a losanga aperte ad altezza d’uomo e a distanza regolare nelle mura di cinta, mentre scorrevano via sommerse dai panneggi alati delle loro vesti bianche.
Mi era capitato spesso, mentre alla ricerca di una voglia di pace mi lasciavo svuotare da ogni altro pensiero, di concedermi a lungo e sulle ali inspiegabili di una strana forma sin troppo attenta di disattenzione, alla vista di quella monumentale pleura protettiva sostenuta, nella sua michelangiolesca esattezza, soltanto da una sottile anima d’aria; ma all’improvviso l’avevo guardata restando un po’ rigido dietro la tenda, come se stessi spiando una donna distesa a prendere il sole nuda su un terrazzo, perché la sentivo segretamente respirare e scorgevo cose che in precedenza non avevo mai viste: il suo profilo concluso da un fronte di nubi in tempesta e accarezzato da deboli, umidi echi di tuono autunnale; e nel suo insieme tutto questo era un richiamo, un’invocazione in forma di vortice che separava distintamente l’occasionale brontolio del maltempo dal regolare e cadenzato passaggio dei treni sugli archi del ponte che, dal canto suo, continuava a ricordarmi un antico acquedotto romano.
La vita di tutti consiste in sostanza nell’usare un nome proprio per andare in cerca del proprio nome e tale esplorazione necessita e prescrive che si discenda senza mezze misure in quel labirinto sommerso di cause e di effetti messi ciecamente in relazione tra loro – spesso anche su più livelli sovrapposti – all’interno del caotico circuito di sinapsi casuali che fa da retroscena a un’immagine sottile e di senso compiuto, impressa su una pellicola come la sequenza di un film, la quale poi, affiorando nella sistemazione intellettuale di una superficie, viene a seconda dei casi chiamata storia, cronaca o anche solo esperienza di vita.
Nel caso specifico, dato per assodato che molti progressi tecnologici sono scaturiti da studi e ricerche aventi finalità di tipo militare, ciò è indubbiamente vero anche per le strutture pneumatiche come quella che proteggeva i campi da tennis del “Cephalophores martyrs institute” e che io continuavo a guardare dalla finestra senza stancarmi di trovare per essa somiglianze sempre nuove, come per esempio quella con una sonda aliena appena atterrata o con una mastodontica protesi mammaria. C’era tutto un intreccio complicatissimo di avvenimenti, intenzioni, parole, progetti, sentimenti e circostanze a rendere possibile l’esattezza di quel momento della mia vita e dei vari impulsi emotivi che lo irroravano; eppure un’opera simile, tanto gigantesca nelle sue dimensioni spazio-temporali quanto precisa poi nel centrare il bersaglio, non aveva avuto altro motore che una serie ininterrotta di coincidenze a cascata.
Le prime costruzioni sorrette solo dall’aria erano state le cupole della linea DEW, utilizzate con grande successo in Alaska per proteggere le attrezzature radar dai rigori del clima. Ben presto queste coperture, grazie alla loro sorprendente duttilità, avevano trovato applicazioni militari sempre più vaste ed erano state usate come magazzini e ospedali mobili, ma anche per accogliere dei laboratori destinati al montaggio delle armi o alla manutenzione dei veicoli e degli aerei, e ancora per essere adibite, come già era avvenuto in Alaska, alla protezione dei delicati strumenti strategici di rilevamento.
Il primo tentativo conosciuto di applicare i principi del pallone a strutture estranee al volo e all’aria era stato realizzato da un certo Frederick William Lanchester, un ingegnere inglese che nel 1917 aveva adottato i concetti fondamentali della costruzione pneumatica per il suo brevetto di un ospedale da campo, derivato appunto dalle tecniche utilizzate nella realizzazione degli aerostati e dei dirigibili. Senza saperlo, egli aveva così dato origine al rigagnolo stocastico – un impercettibile zampillo tra milioni e milioni di altri – che dal corpo della grande cascata del caso, sempre fragorosamente sospinta verso il basso dalla gravità universale, laggiù dove il tempo si fa percepire più pesante, avrebbe a poco a poco raggiunto, molti decenni più tardi, quella circostanza della mia vita ben disposta tutt’intorno all’immagine del placido bozzolo protettivo sospeso dalla sua anima meccanica su di una schiera di campi da tennis compatti e verdeggianti nonostante l’assenza dell’erba, frantumandosi poi una volta di più, come sul carapace di una tartaruga, sul dorso duro del senso sempre meno significativo del mio lutto per poi scivolare o rimbalzare ancora e ancora chissà come, chissà dove, chissà quando.
“La presente invenzione ha lo scopo di fornire un mezzo per costruire ed erigere una tenda di grandi dimensioni senza l’uso di pali o supporti di ogni genere. L’invenzione consiste nella costruzione di una tenda in cui il tessuto del pallone aerostatico o altri materiali a bassa permeabilità vengono retti dalla pressione dell’aria e il cui ingresso è fornito da una o più camere stagne…“: in queste semplici parole, annotate da F.W. Lanchester sul suo brevetto, non c’era solo l’inaugurazione di un nuovo modo, più duttile e delicato, di pensare le coperture di grandi spazi come gli hangar e, appunto, i campi da gioco, ma anche il seme, appena piantato nel grembo misterioso di una terra immateriale, contemporaneamente già presente e ancora di là da venire, di quel mio momento decisivo, la sua assoluta potenzialità custodita in un anfratto minimo e oscuro di un groviglio vivace di cellule embrionali pronte a evolversi in una miriade di occasioni diverse per natura e dimensione (cioè quella che un non disincantato avrebbe definito importanza).
Diversi anni dopo, e per la precisione nel 1938, proprio mentre quell’aria alla quale aveva dedicato tutto il suo talento stava per tornare a essere ovunque e con inaudita ferocia un agghiacciante campo di battaglia, Lanchester il visionario, l’uomo senza il quale non sarebbe probabilmente esistita la calotta bianca e molle che allora stavo osservando e che mi faceva pensare al mezzo cranio di un bambino gigantesco partorito dalla madre terra e appena spuntato in superficie, aveva cominciato a immaginare costruzioni pneumatiche sempre più grandi, disegnando i bozzetti per un edificio adibito a mostra avente un diametro di ben 330 metri. Le idee di Lanchester, però, erano a tal punto estranee ai concetti statici e pesanti dell’edilizia tradizionale da spingere i progettisti del tempo a non prenderle troppo sul serio; per giunta, i terribili incidenti ai quali erano andati incontro i dirigibili, vale a dire i parenti più stretti – e paradossali – delle costruzioni concepite dall’unico ingegnere che il sorprendente talento confidenziale della leggerezza e della precarietà nel trasformare l’indeterminazione dello spazio nel dettaglio di un luogo era riuscito a incantare sino a quel momento, avevano gettato altra benzina sul fuoco dello scetticismo generale finché dal caos sanguigno della guerra era emerso, inatteso come una vocazione religiosa, lo spirito strategico del gioco; ed era stato proprio questo a rendere improvvisamente popolare la ricerca sulle strutture pneumatiche per finalità davvero singolari quali palloni frenati, edifici posticci e simulazioni di veicoli aventi come unico scopo quello di trarre in inganno il nemico.
Nel frattempo gli Stati Uniti avevano appunto realizzato delle grandi antenne radar per proteggere la loro frontiera settentrionale da eventuali invasioni e, a causa delle rigide condizioni climatiche, queste necessitavano di coperture idonee che, tuttavia, non ostacolassero a loro volta il flusso delle onde compromettendone il buon funzionamento. Così, tutt’a un tratto, l’idea di realizzare una lieve membrana, una specie di grande sacco amniotico tenuto in piedi dalla sola pressione dell’aria era diventata non solo molto popolare ma aveva attirato anche considerevoli stanziamenti economici da parte del governo americano. Negli anni successivi alla prima erezione completa e al collaudo del prototipo, a causa della tipica euforia da prestazione che contraddistingue gli americani ogni qual volta si trovano a oltrepassare una frontiera qualsiasi, ideale o materiale che sia, l’Alaska era stata letteralmente invasa da centinaia di cappelle fungine levate verso un cielo alla cui pressoché inflessibile consistenza di zucchero filato parevano voler contribuire con altrettante vibrazioni cromatiche in apparente espansione, tipo acquarello, fatte di macchie e screpolature diluite tra ombre giallognole e macchie biancastre, protette da involucri di plastica e animate con leggiadria lievemente arrogante e sanguigna da continui flussi d’aria. Non a caso in quel clima entusiastico di frenesia produttiva ben presto erano stati sviluppati nuovi materiali capaci di resistere alle condizioni più rigide grazie a tessuti come nylon o terylene spalmato con uno strato sintetico di neoprene, vinile o hypalon.
A seguito dei riscontri positivi ottenuti in breve tempo dall’utilizzo di queste cupole, l’anima capitalistica dell’America non poteva che entrare nel tunnel di una feroce fibrillazione creativa da dollaro-dipendenza, prendendo in mano le redini di tutta la faccenda sino alla fondazione in pompa magna, nel gennaio del 1956, della Birdair Structures Incorporated, una società dal nome poeticamente ammiccante e specializzata nella progettazione e nella messa a punto di strutture pneumatiche finalmente destinate agli scopi più vari che però, pur potendo vantare ottimi presupposti finanziari e organizzativi, aveva dovuto subire lo smacco, anch’esso tipicamente capitalistico, di vedersi precedere dall’agilità sfrontata della Cidair Structures – il classico, piccolo mammifero che beffa il gigantesco dinosauro nella lotta per la sopravvivenza – nell’erezione del primo magazzino adibito a uso commerciale e sorretto solo da un flusso d’aria costante. Da quel momento, anche per via del tacito sostegno di molte chiese evangeliche, a dir poco elettrizzate dai potenziali contenuti simbolici di quel business, a partire dal richiamo metafisico alla spiritualizzazione dei corpi risorti dopo il Giudizio Universale e al soffio divino che nella Genesi rende uomo – “adam” – l’inerte pupazzo plasmato in precedenza da Dio con la terra – “adamah” – ma anche all’autentica anima americana – devota, dinamica e dilettevole – rappresentata a sua volta in modo pressoché ineguagliabile dal lancio industriale della chewing-gum, andato a regime nel 1871, appena due anni dopo il deposito del brevetto, avvenuto il 28 dicembre 1869, da parte di un certo William Semple, che dal suo New Jersey ne aveva sottratto con destrezza la paternità nientemeno che al generalissimo Antonio López de Santa Anna, il carnefice di Alamo, vendicando così in un colpo solo la morte dei 189 difensori del glorioso fortino con un successo commerciale a stelle e strisce senza precedenti, celebrato poi col passaggio dall’obsoleta chicle naturale delle origini al sintetico PIB e con l’apertura generosa alle mirabolanti seduzioni dei polisaccaridi addensanti, l’America intera era stata contagiata dalla febbre per le coperture pneumatiche; anche i più ordinari fabbricanti di tende e di paracadute avevano entusiasticamente cominciato a costruire edifici di questo tipo, semplici ma dignitosi, e intorno al 1957 già una cinquantina di produttori statunitensi utilizzavano gli attributi delle strutture sorrette dall’aria per coprire impianti sportivi e militari, fiere, magazzini e addirittura fabbriche intere.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti