Di quel momento, che come pochi altri doveva essere decisivo per la mia vita, ricordo molto bene prima di tutto la strana atmosfera, acuita a dovere dall’apertura della finestra. Si trattava di un intreccio silenzioso e complice di cose di fuori e di dentro. L’esterno era perfettamente ricalcato in me da una sempre più scivolosa disposizione sentimentale con la stessa leggerezza incerta di una matita morbida in grafite 9b che una mano svagata faccia scorrere sopra un foglio di carta da lucido col solo intento di scarabocchiare qualcosa soprappensiero – mentre c’è ben altro d’importante in atto – e che per puro caso finisca poi per completarsi in un vero e proprio disegno, in un’immagine di senso compiuto. E poi dominavano ovunque qui la quiete e là lo struggimento, tanto puntigliosi nel delinearsi a vicenda quanto inclini a mantenere – così come fa nei confronti del presente, assumendosi anche la responsabilità di pose anacronistiche, un attempato e irriducibile poeta bohémien, cliente abituale, e per paradosso ogni volta più vanesio, di piccole tipografie prezzolate che spaccia a se stesso e agli altri per vere case editrici – una geometrica equidistanza parabolica dal fuoco del significato e dalla retta direttrice del senso, conservando con gentilezza una sia pure minima docilità sentimentale verso l’infinita estensione che nel frattempo se ne fuggiva estrema sia a sinistra che a destra, appena prima d’impennarsi una volta per tutte verso una non meglio definita altitudine. Brevi frammenti di giovani risate ascendevano poi con ingenua freschezza nell’irreale concavità silenziosa di un cielo ovunque tratteggiato lungo solchi di fuliggine umida e interrotto a tempo dai lampioni che parevano code di piccole culle stellari mentre qua e là si udivano anche dei fruscii fatti di ghiaia e di molte, piccole e felicemente indefinite cose notturne, come se a Londra esistessero ancora lo spazio e la speranza per una macchia selvaggia o per una foresta vergine; ma c’erano anche, diffusi, quella sera, tanti piccoli tremori e ombre varie di movimento che attorno a questi si accartocciavano da qualche parte in lontananza, come nel grembo ideale di un deserto in mezzo al quale stavano – identici in me – il pensiero di mia madre e l’immagine di quella cupola sorretta soltanto dal soffio dell’aria.
Avevo l’impressione che i miei pensieri emanassero calore, che fiammeggiassero rannicchiati in posizione fetale intorno al centro del mio lutto mentre questo lentamente si sfogliava nel loro fuoco carico di tutta l’aurea bellezza del fondale di un’icona russa. Il mio dolore, con la stessa emozione di un attore non protagonista che deve tornare sul palco per una sola battuta nell’ultima scena dell’ultimo atto, si stava rifacendo il trucco di fronte alla sua solitudine, usandola stavolta però come uno specchio, ossia quale magica cornice elettiva di qualsiasi viso in cui a volte è possibile riconoscere il proprio, e poi, a seguire – con sapida dolcezza – anche di tutti i suoi rovesciamenti prospettici e ancora degli infiniti camuffamenti divini dei quali è capace; e nondimeno essa rimaneva soprattutto lo spazio in cui il tempo, di nuovo semplificandosi sorprendentemente, si mostrava quale unità di misura della distanza che sta tra l’oggettiva verità e il dato soggettivo – individuale o sociale – della sua percezione.
In questo gigantesco e progressivo desertificarsi dei comuni rapporti che allacciavano me con me stesso, la mia vita con se stessa, e infine anche me e la mia vita, a nostra volta accoppiati insieme per puro caso, l’immagine della copertura pressostatica dei campi da tennis del “Cephalophores martyrs institute“, mentre vibrava appena con la statica sicurezza di un’anima immortale sotto e tra le luci mobili e fisse della grande metropoli che, lì adombrando e qui schiarendo, ne sfioravano la lucida rotondità perfetta, si era sovrapposta al ricordo di una stampa antica, che stava appesa, all’interno di una cornice in ebano e tartaruga con vari inserti in ottone, nel grande ingresso della casa signorile dei miei nonni paterni, tra un olio di Giovanni Boldini raffigurante una giovane donna immersa nell’alato sfarfallio del suo abito bianco e rosa e la fotografia color seppia della Bugatti Type 13 Brescia che era appartenuta a mio bisnonno.
Sulla grande stampa, dalla quale si spandeva, quasi come l’aroma al tempo stesso unitario e nitidamente scandito di un mercato di spezie levantine, il clima culturale che aveva infiammato la moda dell’esotismo nell’alta società inglese dell’800, era riprodotto un monumento al quale secondo mio nonno – che, in ossequio a una sorta di rito imprescindibile d’iniziazione, non mancava mai di commentare quell’immagine con chiunque entrasse per la prima volta nella sua casa – si era ispirato addirittura Filippo Brunelleschi per la cupola di Santa Maria del Fiore e che, sempre a sentire lui, era anche il prototipo del Tāj Maḥal di Agra, in India (sul quale non poteva fare a meno di profondersi in lunghe digressioni, snocciolando a caso qualcuno dei suoi ricordi di ufficiale dell’esercito di stanza ad Amritsar, nel Punjab): il mausoleo, dominato appunto da una cupola bellissima e straordinariamente possente, fatto costruire a Sulṭāniyyah, nel cuore dell’aspro e maestoso paesaggio persiano, dal principe mongolo Oljeitu, con ogni probabilità l’uomo più convertito nella storia dell’umanità, in quanto battezzato cristiano, divenuto buddista e infine musulmano, ma prima sunnita e poi sciita, ottavo Ilkhan e bisnipote del fondatore della dinastia Hulagu Khan, che avrebbe dovuto ospitare le spoglie dell’imam Ali, cugino e genero di Maometto, se i precetti religiosi dell’Islam non ne avessero imposto invece la permanenza a Najaf.
Quella stampa antica mostrava il mausoleo da un punto di vista assolutamente privo di velleità scenografiche, come se fosse una specie di perfetta erezione virile, al centro di una grande pianura desertica, attorniato da catapecchie di paglia e di fango e poi, in uno scorcio appena più pittoresco, un hammam di epoca Qajar, con le sue ordinate cupolette gentili. L’immensa cupola oviforme vi appariva poggiata su un’alta costruzione ottagonale ed era contenuta all’interno di una cintura di otto minareti che s’innalzavano agli angoli del parapetto dell’ottagono; la muratura era dolcemente rosata mentre i minareti mostravano rare tracce dello stesso turchese dei trifogli profilati di lapislazzuli che scintillavano lungo la base della cupola. La forza e la serenità sprigionate da quella visione avevano tutta l’audacia dell’invenzione autentica, gli abbellimenti erano sacrificati alla lucentezza di un’idea originale e il risultato, nonostante il pallore delle imperfezioni imposte poi dall’abbandono e dal trascorrere del tempo, rappresentava il trionfo architettonico dell’idea sulle limitazioni tecniche.
Senza che lo volessi avevo finito per sovrapporre la sembianza appena rammemorata della grande cupola a doppio guscio del mausoleo di Sulṭāniyyah ritratta sulla stampa antica all’immagine, presente invece in quel momento alla mia vista, dell’altrettanto imponente cupola pressostatica degli impianti sportivi del “Cephalophores martyrs institute“, sebbene dal canto suo quest’ultima fosse poi rispetto all’altra quasi verginale nella sua candida, assoluta integrità nonché infinitamente più leggera, come se ne rappresentasse la rievocazione solo in forma di pura essenza spirituale; o, per meglio dire, era stato proprio quel ricordo a sollecitare qualcosa di ben più reale nella realtà che, nonostante fossi ancora trascinato dagli ipnotici meccanismi che governano ogni giorno il comune senso del vedere (che però stavolta ero anche capace di riconoscere!), stavo guardando.
Una fragile luminosità crepuscolare disegnava dinanzi a me, con fare quasi bambinesco, il profilo biondo e lattiginoso della cupola che pendeva alla perfezione sul mondo così come la cassa armonica di un liuto accoglie la sua accordatura, tracciando rapide ombre e linee giocose tutte tra l’azzurrino e il blu cobalto per poi disciogliersi nella verdeggiante solarità della superficie di una piscina termale al tempo della sua bella solitudine disabitata, verso sera.
Laggiù, proprio come nella proiezione di un mausoleo inutilizzato perché segreto, e segreto perché incomprensibile a tutti tranne che a me, avevo sepolto nel disincanto il lutto per la morte di mia madre.
L’ombra ormai trafiggeva la luce, dolorosa e materna sui bulbi mitici delle viole da gamba. Orchestre d’archi a sesto acuto eseguivano per me i suoi seni. Lei, nuda di bianca pelle e pudica di poco lino posava in segreto, morta all’insaputa dei suoi pittori prediletti. Viveva appena come sussistenza e intuizione; era contorni sbiaditi su tele incompiute e, soltanto per me, desiderio filiale sottratto per sempre alla liquida fertilità delle parole. Posava per l’eternità di un solo istante e per la memoria del sempre. I suoi capelli come nenia terrestre di dolore viandante; le mani come sonno errante tra ghiaccio e respiro, voci di foglie di ineluttabili foreste unite almeno in un unico canto. Lei stava, morta e monocromatica modella, in attesa del nulla, ma nella forma che solo un sogno può donare alla luce per trafiggere l’ombra (une dimanche, après-midi, à l’Ile de la Grande Jatte).
Dell’amore che aveva sparso non serbavo alla fine che pochi fiori, fragilissimi e secchi, custoditi tra le pagine femminili dei suoi libri: lei se ne era andata per sempre ma io ero perfettamente in grado di non sentirmi più solo perché il tempo aveva risucchiato lo spazio in forma di distanza, proprio come fa un mausoleo vuoto con la sua tomba mancata.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti