L’UOMO DISINCANTATO – Il peso delle coperture pressostatiche sull’aleatorietà del destino (2)

Grazie all’estrema funzionalità di questo genere di costruzioni era possibile ricoprire grandi aree con un investimento economico contenuto e avendo sempre a disposizione una struttura portatile che, a seconda delle esigenze, poteva essere smontata e rimessa in piedi nell’arco di un solo giorno. Le costruzioni pneumatiche avevano attirato perciò in breve tempo notevoli investimenti pubblicitari; e giacché la pubblicità, com’è genericamente ben noto, è l’anima del commercio, aveva propulso a tal punto i livelli di popolarità di queste pratiche coperture a forma di carnosi cappelli fungini che ben presto sull’intero territorio degli Stati Uniti ne erano sorte a centinaia, come se da sempre tutto il continente, dall’Atlantico al Pacifico, non fosse stato altro che un immane, fertile sottobosco, irrorato con sapiente costanza da una tenue pioggia estiva, o al massimo appena autunnale, leggera, ricorrente e tiepida, incapace, in virtù della sua stessa indole, di assecondare i turbamenti brutali e improvvisi della grandine così come le miti sevizie prolungate delle coltri di nevischio.
Una parte ragguardevole di queste coperture pressostatiche erano state studiate apposta per gli impianti sportivi e una qualsiasi fra le tante, seguendo per caso chissà quale via traversa, era sorta appunto a poca distanza dai luoghi che allora stavano facendo il filo alla mia vita, allo scopo di custodire alla giusta temperatura ambiente i bei campi da tennis in terra verde dell’esclusivo “Cephalophores martyrs institute“, offrendosi ai miei occhi come una spinta decisiva e con un significato tanto specifico quanto sorprendente, entrambi necessari a ultimare il processo durante il quale il sentimento del lutto per la morte di mia madre sarebbe infine stato in grado di avvitarsi su se stesso – volteggiando sul perno del proprio equilibrio come il corpo elastico di un discobolo nel momento in cui lambisce al millimetro un’altrimenti rovinosa caduta – poco prima di lanciare oltre, in direzione del disincanto, anzi per la precisione entro i confini invisibili e risolutivi del suo insindacabile arbitraggio, qualcosa di me che, misteriosamente a metà strada tra il secco dolore causato dalla lacerazione del tendine d’Achille e il suono sferragliante di una grossa serratura che si apre giusto all’ultimo giro forzato della chiave, rinuncio sin d’ora a sondare con migliore accuratezza, perché questo significherebbe dover fare i conti in modo drammatico con la mancanza, anzi con la scarsità del tempo a mia disposizione, riproponendo a me stesso il secolare equivoco patetico – tempus fugit et ruit hora – al quale più o meno nessun uomo fino a oggi ha saputo sottrarsi. D’altra parte se fossimo sul bordo di un buco nero tra un secondo e mille anni non ci sarebbe alcuna differenza! Ciò che davvero nuoce all’uomo non è quindi il tempo che passa, così come i tetri poeti malinconici e tanta faciloneria sentimentale ci hanno sempre fatto credere, bensì la gravità: più si è attratti verso il basso, più il tempo pesa. Il segreto meglio riposto del vero disincanto, quello che infinite volte avrei sperimentato – e sempre involontariamente – è invece una formidabile leggerezza, che coloro che vivono lasciandosi banalizzare dai propri sentimenti avrebbero comunque interpretato – e sempre a torto – in certi casi come una forma di cinismo e in troppi altri di superficialità.
La scelta da parte delle suore domenicane di questo tipo di copertura, tanto scenografica e ultramoderna quanto in definitiva poco costosa rispetto a quelle più classiche, per i campi da tennis del “Cephalophores martyrs institute“, mi aveva offerto spesso, mentre me ne stavo appollaiato sulla sedia dietro i vetri della finestra durante una delle mie piuttosto frequenti crisi infantili di mutismo solitario, uno spettacolo che allora contendeva per me il primato del massimo stupore a una visita al mio Luna Park preferito, che era il Museo di Storia Naturale di South Kensington, ospitato in una specie di gigantesca cattedrale neogotica, dove potevo vedere, tra le altre cose, gli scheletri dei miei adorati dinosauri. Lo spettacolo in questione consisteva nelle periodiche operazioni di copertura e scopertura dei campi da gioco in base alle esigenze stagionali o meteorologiche. Ogni volta che succedeva, io trascorrevo un lasso di tempo indeterminabile, cullato da una sospesa profondità, a fissare quel grande utero candido, a prima vista molto fragile e percorso da una trama di capillari trasparenti, che alternativamente si riempiva o si svuotava come per mettermi di fronte alla rappresentazione di qualcosa di davvero primordiale, carico di simbolica essenzialità, rispetto a cui i campi da tennis, ordinati in due file da due, costituivano alla fine una sorta di conseguenza, o ancor meglio di sostanza, plurigemellare, di volta in volta custodita da una gestazione oppure rivelata da un parto.
L’installazione della copertura pressostatica dei campi da tennis del “Cephalophores martyrs institute” era stata realizzata da maestranze specializzate, un numero forse esagerato di piccoli uomini in maglia rossa, salopette blu da lavoro e casco giallo sulla testa che, formicolando avanti e indietro, avevano assolto al loro compito in modo efficiente e rapido, seguendo una procedura standard della quale evidentemente conoscevano a memoria e alla perfezione ogni passaggio. Come al solito, la costruzione non richiedeva strutture portanti ma era resa stabile grazie all’aria pompata internamente da un impianto di pressurizzazione. La membrana protettiva era stata concepita su misura in base alle dimensioni esatte dello spazio che doveva essere coperto. Era costituita da un tessuto in poliestere ad alta tenacità del peso di 735 gr/mq, spalmato su ambo le facce con uno strato di PVC resistente all’azione dei raggi UV e agli agenti atmosferici e realizzato anche per reagire in modo adeguato e sufficiente a garantire la sicurezza delle persone in caso di incendio. Allo scopo di ottenere un migliore isolamento termico riducendo il fenomeno della condensa interna e quindi i costi del riscaldamento, la copertura era stata realizzata a doppia membrana, cioè con un’intercapedine dentro la quale circolava l’aria, mentre per l’ancoraggio a terra si era fatto ricorso a dei grossi anelli in acciaio fissati mediante dei picchetti inseriti nel terreno. L’impianto di illuminazione interno, ovviamente smontabile, era costituito da proiettori con lampade da 400 W completi di linee elettriche e quadro comando di accensione di ultima generazione, mentre per quello di riscaldamento si era fatto ricorso a un generatore di calore funzionante a gasolio, posto all’esterno della copertura e collegato a essa mediante canali di mandata e di ripresa dell’aria; e c’erano anche un gruppo di emergenza, necessario per mantenere in pressione la copertura nel caso di blocco del generatore di calore, che funzionava in modo autonomo e sempre a gasolio, e poi un impianto a ventola di de-stratificazione del calore che rendeva uniforme la temperatura all’interno della copertura limitando in tal modo la formazione della condensa con un benefico effetto sui consumi per il riscaldamento.
La strana fascinazione che provavo per quella specie di scafo che galleggiava rovesciato sull’aria come se questa fosse l’acqua di un oceano fenomenale non sarebbe mai stata possibile di fronte alle allora più comuni coperture geodetiche degli impianti sportivi. Le costruzioni geodetiche, infatti, si realizzano sviluppando uno schema reticolare a maglia triangolare, quadrata o rettangolare, irrigidito dalle diagonali fuori dal piano che confluiscono in nodi interni i quali, a loro volta, legano spazialmente l’intera struttura. Questo reticolo si ottiene grazie al collegamento delle aste ai nodi e, a tale scopo, esse sono dotate di innesti filettati che permettono di congiungerle mediante un bullone, assemblando così l’intero scheletro dell’installazione. Le aste sono realizzate con profili tubolari di sezione circolare, quadrata o rettangolare e la loro dimensione è determinata in base al calcolo strutturale che stabilisce le loro lunghezze e le loro caratteristiche geometriche, come le dimensioni, il diametro e lo spessore. I giunti, detti anche nodi, sono costituiti da calotte forgiate in acciaio nelle quali vengono praticati dei fori per il passaggio della vite, con le angolazioni richieste al fine di ottenere la forma che si desidera, e hanno la caratteristica di avere una forma sferica o semi sferica di dimensioni tali da non sporgere dal filo esterno delle aste, così da non creare dei punti sporgenti che potrebbero impedire la realizzazione corretta e continua della copertura, realizzata a sua volta coi materiali più disparati, dalle membrane in PVC fino ai pannelli rigidi o al vetro. Fra tutte, la più diffusa ed economica è senza dubbio quella ottenuta con l’utilizzo dei teli in PVC, che all’occorrenza può essere realizzata sia esternamente alla struttura che al suo interno. In quest’ultimo caso la copertura va fissata, tesa e infine stabilizzata tramite dei cavi o delle catene che devono collegare i doppi dischi parastrappo, usati per bloccare la membrana di copertura, e i nodi che sono i punti fissi di aggancio dell’intera struttura. Se invece l’involucro viene posto all’esterno della costruzione, per fissarlo e ottenere poi la tensione ottimale si possono utilizzare due procedimenti a seconda delle esigenze: mediante l’inserimento di  tiranti che colleghino i profili tubolari inseriti nelle sacche congiunte al telo e gli ancoraggi perimetrali fissi della struttura; oppure facendo ricorso alla saldatura all’interno del telo di un numero adeguato di fasce orizzontali munite di occhielli, che consentano alla corda elastica, nel passare attraverso i fori e intorno alle aste orizzontali, di allungarsi e ritrarsi, dissipando così energia, in modo tale da mantenere sempre alla giusta tensione la membrana di copertura nonostante l’azione di agenti atmosferici particolarmente logoranti come il vento e la neve. I teli impiegati per realizzare le membrane di copertura sono impermeabili e costituiti da un tessuto in poliestere altamente resistente ricoperto da ambo i lati con cloruro di polivinile e possono essere messi in posa sia in forma singola che doppia, giacché l’accoppiamento di due teli, distanziati tra loro grazie all’aria soffiata all’interno dell’intercapedine che naturalmente si viene a formare, offre delle prestazioni migliori dal punto di vista energetico. In certi casi il rivestimento può essere realizzato anche con dei pannelli rigidi, ricavati dall’accoppiamento di due lamiere che contengono del materiale isolante, il quale può essere di volta in volta poliuretano, polistirene oppure lana di roccia così da rendere agevole la scelta più idonea in relazione a ogni specifica esigenza, sia ambientale che del committente.
In considerazione di questo intreccio sontuoso di tecnica e solidità razionale, di stabile sottrazione allo spazio esangue di una precisa porzione di mondo, tanto simile alla libbra di carne reclamata per contratto dall’usuraio Shylock dal corpo vivo del suo inadempiente debitore Antonio, l’impressione complessiva che mi trasmetteva la vista di una copertura geodetica che se ne stava ben salda sopra un impianto sportivo qualsiasi, quando, fasciata dal tipico silenzio imperfetto che l’orecchio umano, intrecciando in qualche istante friabile di quiete miliardi di sollecitazioni sonore appena andate in frantumi, conia a partire dal filo della propria assuefazione alle più sparse malinconie dell’acustica metropolitana, si faceva largo nell’aria, ridefinendone le simmetrie in forza della proiezione dell’icosaedro platonico, dal quale essa, adattandosi armonicamente, si sprigionava, sulla superficie della sfera che lo circoscriveva, era quella di un grande organismo scuoiato: lo scheletro e la pelle di qualcosa che si era appartenuto o che doveva ancora appartenersi, uniti e separati in un enigmatico equilibrio tra morte e concepimento. Tutto considerato, cupole simili erano solo la testimonianza di un’inadeguatezza di fondo dell’architettura rispetto alla geometria che risiedeva nell’impossibilità di eseguire la proiezione del solido originario sulla sfera conservando al tempo stesso gli angoli e i lati primitivi, dovendo così accontentarsi alla fine di un realistico compromesso fatto di triangoli e geodetiche “quasi” regolari. Esse erano l’incantevole rappresentazione di un atto gratuito della volontà, il calco metaforico del momento d’irrazionale sensatezza in cui l’oggetto che, in quanto tale, è ancora e semplicemente solo possibile – e sa di esserlo – decide, spesso anche senza riflettere, come a partire da un immediato obbligo percettivo, di cominciare ad avere il suo luogo, qualunque esso sia, e di farsi a pieno titolo soggetto, significato senza significante, abbracciando in questa sua scelta da affittuario bendisposto la definitiva approssimazione architettonica che essa già implica da subito e che in seguito comporterà per sempre rispetto a qualsiasi rifacimento, poco importa se e quanto libero e vero. Ma io, che non mi ero e né mai mi sarei fatto incantare dal divenire e dall’essere stato, giacché non ho mai capito nulla dell’esserci in generale (che poi in fin dei conti è stata anche una menomazione divertente, nella quale ho trovato sempre il meglio di me stesso, facendone alla fine un vero dono di natura), vedendo quelle cupole, provavo un dolore senza grazia, come se mia madre dovesse continuare a morire dentro di me all’infinito.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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