L’UOMO DISINCANTATO – Il mondo segreto di Tea Boot (8-fine)

Il giorno successivo, Kassandra Swollenfeet aveva chiesto udienza a Marie che, dal canto suo, era stata ben felice di avere l’opportunità di ringraziare di nuovo quella santa in incognito i cui speciali poteri taumaturgici aveva sperimentati in prima persona.
La novizia, che aveva in serbo per lei una richiesta stupefacente, era quindi apparsa davanti all’entrata della sua cella, sospinta ancora una volta da quei suoi passi senza corpo nei quali la gravità pareva perennemente rinviata alla pura forma di un’onda, e aveva bussato, lasciando che un moto lievissimo delle nocche della sua mano sfiorasse appena il legno della porta.
“Reverenda Madre,” le aveva detto con una passione appena trattenuta dalla naturale compostezza del suo contegno, “ho bisogno di un dono da voi, un regalo in cambio della guarigione della vostra anima…”
Marie, commossa dal candore della fede con la quale Kassandra, senza la benché minima ombra di vanità, intendeva la propria intercessione, aveva risposto immediatamente che sarebbe stata felice di poterle essere utile in qualche modo.
“La fama senza uguali della vostra arte”, aveva ripreso la novizia, “mi è giunta già molto tempo fa e per questo sono sicura che soltanto voi possiate realizzare il mio desiderio…”
Nell’udire quell’inequivocabile riferimento alla pittura, Marie avrebbe voluto mettere subito le mani avanti, parlandole dell’azzurrità dell’azzurro del cielo ed elencando le ragioni che allo stato delle cose le vietavano di rimettere mano ai pennelli; ma tutte quelle parole, sebbene fossero già ben determinate, non avevano trovato poi il necessario sostegno nella sua voce, mancando così una volta per tutte l’aggancio con la realtà irripetibile del tempo a loro disposizione. Nei fatti a impedirle di aprire bocca era stato un sentimento irruente di pietà che all’improvviso l’aveva fatta rabbrividire d’amore davanti allo sguardo di Kassandra, attraversato proprio in quel momento, a dispetto dell’essenziale conservazione della sua solita armonia, dalla luce liquida di una speranza dolente; ragion per cui, alla fine, era riuscita a fare solo un timido – e molto inquieto – cenno di assenso.
“Come sapete,” aveva soggiunto immediatamente l’altra, confortata da quella disponibilità, “io non ho mai conosciuto mia madre: a poche ore dalla mia nascita sono stata abbandonata presso un convento di suore che mi hanno affidato alle cure di una delle domestiche. Durante gli anni ho cercato di rintracciare con ogni mezzo la donna che mi aveva partorita; più di una volta – e di ciò ho un’istintiva certezza – sono giunta a poca distanza dalla verità, che tuttavia è sempre riuscita a scansarmi in tempo, finché ho capito e accettato che ogni tentativo sarebbe stato comunque inutile. Così mi sono rassegnata: mia madre non esiste o, almeno, non è mai appartenuta ai luoghi e ai tempi della mia vita, se non per quei nove mesi talmente decisivi da essere anche del tutto inaccessibili per la coscienza. La rinuncia, però, non ha affatto incrinato la mia speranza. Perché, in fondo, io una madre l’ho avuta comunque, ed è in tutte le persone che mi hanno donato una parte importante di loro stesse, e poco importa se solo attraverso semplici parole e singoli gesti oppure con una presenza più duratura. Non giudicatemi puerile se vi confesso che oggi mi piacerebbe poter vedere finalmente com’è questa creatura che ho immaginato attingendo alle memorie migliori custodite dalla mia gratitudine; vorrei conoscere a cosa somiglia il viso ideale di mia madre, e soltanto voi potete aiutarmi…”
Marie aveva ascoltato quelle parole quasi senza respirare, sempre più accesa dal desiderio di dare corpo alla straordinaria speranza che il cuore di Kassandra aveva tenuto in serbo per lei.
“Ditemi in che modo posso esservi utile…”, aveva infine replicato con una voce intensa ma priva di pesantezza.
“Vedete, reverenda madre, io vorrei che voi deste una forma qualsiasi, quella che la vostra arte vi suggerirà, a questa donna che di fatto non esiste, che io stessa ho potuto amare da figlia solo facendone nel mio cuore un’indefinita costruzione sentimentale: è un’impresa difficile perché appunto io non ho di lei un’esperienza diretta migliore delle parole che scelgo per raccontarvela…”
Marie stentava ancora a comprendere e il suo volto aveva lasciato che questa incertezza, facendosi cruccio, si manifestasse nell’improvvisa densità di un lungo corrugamento della fronte.
“Mia madre”, l’aveva incalzata subito l’altra per arginare sul nascere un’inerzia in cui avrebbe potuto attecchire il seme di un dubbio pericoloso, “ha in primo luogo l’umile sollecitudine degli occhi di colei che meglio e più a lungo di qualsiasi altra persona mi ha guardata con amore: la domestica che mi ha allevata. Si tratta di uno sguardo arioso, portato, nella sua muta discrezione, a essere tanto essenziale nell’ombra pur sempre tenera dei rimproveri quanto invece prodigo nello slancio limpido delle innumerevoli carezze improvvise; uno sguardo illuminante, com’è una speranza donata a qualcuno una volta per tutte e senza fare affidamento su un tornaconto personale. Ma mia madre ha in sé anche l’eleganza del fruscio morbido e perfetto della seta, come i capelli della monaca che mi ha trovata; capelli che ovviamente io non ho mai visti perché le erano stati tagliati e poi ricoperti per sempre dal velo nel giorno della solenne promessa. Sin da quando ho iniziato a pensarci, però, mi è venuto spontaneo immaginare che essi avessero il colore delle castagne mature e che da giovane le cadessero sulle spalle simili a un’onda soffice qua e là appena più dorata. Era solita raccontarmi che dalla culla, ogni volta che lei si piegava verso di me, io cercavo di afferrarli ma, non trovandoli e restando evidentemente delusa dalla sensazione che la stoffa ruvida del velo monacale trasmetteva alle mie mani, lasciavo perdere e cominciavo a tastare il vuoto, forse in cerca di un appagamento migliore dalla consistenza dell’aria. Ancora, e con altrettanta importanza, mia madre ha la generosità smisurata dell’uomo che per anni si è impegnato a pagare di tasca sua affinché io potessi avere un’istruzione: un ebreo sefardita, cieco dalla nascita, dal quale ho imparato a fare buon uso dell’udito e dell’olfatto per decifrare i messaggi segreti che l’aria conduce sempre con sé, in forma di risonanze e di profumi, dopo averli carpiti ai luoghi e alle esistenze che essa alimenta ininterrottamente; perché, come mi ha sussurrato all’orecchio citando il libro dei Re, alcuni giorni prima dell’equinozio di primavera dell’anno della sua morte, non è nel terremoto né nella tempesta e nemmeno nella maestà del fuoco bensì nel lieve mormorio gentile della brezza che parla il Signore degli eserciti. Il coraggio di mia madre, poi, è nobile e fiero come quello dell’unico uomo che ho amato e al quale, in cambio delle carezze più dolci che corpo di donna abbia mai conosciuto, ho offerto in dono l’innocenza. A volte fantastico di vedere su di lui i segni indelebili lasciati dai miei baci, come se a suo tempo questi fossero stati impressi non dalle mie ma dalle labbra ardenti di un’anima del Purgatorio; soprattutto, però, me lo figuro avvolto da un mantello color porpora come quello dei martiri, in memoria del sangue che ha versato in duello per difendere il mio onore. Infine, e spero con tutto il cuore che non ne siate turbata in alcun modo, il compito forse più difficile per voi: la vocazione di mia madre. Desidero sia quella che più profondamente vi appartiene, così legata agli umori e al destino della vostra bellissima bocca alla quale, senza avere alcun merito e grazie solo agli intrecci provvidenziali dei brutti fili che si nascondono dietro l’arazzo del nostro destino, ho restituito grazie a Dio un’altra specie di sorriso.”
In quel momento Marie si era accorta di amare Kassandra Swollenfeet; l’amava – beninteso – di un amore puro, affatto spirituale, ma proprio per questo agevolato nel suo slancio assoluto e senza riserve; perché si sentiva davvero rapita dalla grazia avvincente delle sue parole e del suo desiderio, la stessa che sentiva fluire a dismisura in quella vita tanto diversa dalla sua.
Le aveva dunque promesso che, non appena si fosse sentita pronta, avrebbe cominciato a dipingere in una rappresentazione coerente le tante nature nelle quali si disperdeva la maternità immaginaria che lei le aveva descritto: la sua arte poteva e doveva servire un sogno dopotutto non troppo distante dall’azzurrità dell’azzurro del cielo.
Qualche giorno dopo, mentre stava guardando il sole che scivolava lungo il campanile facendo avvampare il tetto della chiesa di una doratura presto interrotta e sospesa sui piccoli ambulacri all’esterno dell’abside, Marie si era resa conto all’improvviso che quel grande affresco, quell’ipotesi materna costruita da Kassandra in modo tanto accorato e con l’estenuante precisione di un trompe-l’œil, somigliava tutto sommato a un semplice vaso di fiori. E, con l’entusiasmo di un cuore finalmente in pace con se stesso (proprio come quello di Tea, giunta a sua volta al termine dell’invenzione della memoria), l’aveva dipinto in poche ore.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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