Senza fare dei preamboli che intuiva mi avrebbero solo innervosita, aveva cominciato subito a parlarmi di un suo amico, anch’egli marinaio, il quale a sua volta gli aveva narrato (qui Tea si era fermata a pensare per un po’ a quanto fosse lunga e perfetta in quel preciso istante la catena dei racconti che, uno dentro l’altro come le bamboline di una matrioska, componevano l’invenzione della memoria tenendo congiunte, solo grazie a lei, la prima favola e l’ultima) che durante un viaggio in Islanda si era imbattuto in uno strano personaggio, un uomo a prima vista piuttosto avanti con gli anni, con cui era riuscito a stringere, per caso e inizialmente non senza qualche difficoltà, una specie di amicizia temporanea, visto che costui non brillava certo quanto a socievolezza. Era poco più di un barbone che viveva in una poverissima casa nella zona di Akureyri guadagnando il necessario per tirare avanti con la pesca delle aringhe. Non amava la compagnia e anche da quelle parti non c’era chi potesse dire di conoscerlo per davvero. L’amico dell’uomo che mi stava parlando si era lasciato incuriosire da lui quando una volta l’aveva visto per caso riempire un barattolo di vetro con della neve – proprio come faccio io con la mia ampolla – e, avendo poi scoperto che ogni giorno tornava più volte a compiere quel gesto almeno all’apparenza privo di significato, si era messo a far domande in giro senza ottenere però delle risposte soddisfacenti; così alla fine si era deciso ad avvicinarlo, anche a costo di fare un buco nell’acqua o di essere addirittura trattato in malo modo.
Com’era prevedibile, in un primo tempo l’uomo si era mostrato piuttosto scontroso, ma più per una scarsa familiarità coi rapporti umani che per un’effettiva asprezza di carattere: per smuoverlo, infatti, era bastata una garbata insistenza, e quando finalmente aveva accettato di spiegare il suo strano comportamento l’aveva fatto lasciando trapelare perfino una natura gentile. Stando al racconto dell’amico dell’uomo che mi stava riferendo quella storia, al momento di cominciare a confidarsi lo sguardo di quell’individuo così fuori dal comune si era spogliato tutt’a un tratto della sua severità fino a sembrare vuoto, proprio come oggi, reverenda madre, è apparso a me il vostro. Per prima cosa, il pescatore aveva dichiarato sorridendo di considerare quello di “raccoglitore di neve” il suo vero mestiere e di averlo scelto molti anni prima, nel momento in cui aveva capito di non essere mai stato malato come invece tutti gli avevano fatto credere. Fin da ragazzo, infatti, egli aveva manifestato gli strani sintomi di un misterioso male dell’anima, al quale nessuno era mai stato capace di dare un nome. Un giorno, però, mentre guardava cadere una neve fitta che, suscitando in lui strane ed ermetiche consonanze, gli si annunciava inspiegabilmente evocativa, aveva intuito all’improvviso la verità su quel suo implacabile malessere e, come per incanto, ne era guarito. Si era trattato in verità di una guarigione anomala, perché a conti fatti aveva capito soltanto di non essere mai stato malato, che cioè la sua non era una malattia vera e propria ma una specie di finestra interiore, defilata e tuttavia aperta da sempre sulle cose fino a diventare anche una botola sentimentale spalancata sotto i suoi pensieri.
Da quel giorno l’uomo aveva passato la maggior parte del suo tempo a riempire di neve lo stesso recipiente di vetro: la colmava con cura, attendeva che la neve si sciogliesse e poi la riempiva di nuovo, senza fermarsi mai, tranne che per le ore dedicate al sonno e per qualche uscita con la sua piccola barca in cerca di banchi di aringhe da pescare. Era quello – a sentire lui – il suo vero lavoro; e quando la neve non c’era se ne stava a guardare il contenitore dove nel frattempo l’ultima che aveva raccolto era diventata acqua, quell’acqua che invece non mancava mai, che era sempre dappertutto, anima sovrastante, uguale e diversa, della neve e con questa in perpetuo, recondito antagonismo. In fondo – aveva precisato – la sua morte avrebbe coinciso, fino ad assumerne la forma, col definitivo contenere acqua del suo vaso di vetro. L’ultima frase che il pescatore aveva detto all’amico del vecchio era stata: “Sappia che è un grave errore ritenere che la neve abbia una vocazione tassativa all’acqua. D’altra parte, com’è possibile non tenere conto del fatto che è sulla neve a terra che gli uomini camminano lasciando impronte, e non sull’acqua del mare?”
Detto questo, l’anziano marinaio aveva bevuto l’ultimo sorso della sua birra, mi aveva fatto un cenno di saluto, che sembrava più che altro il ripiegamento di un paguro inquieto alla ricerca di una nuova conchiglia, e se ne era andato lasciandomi in eredità un’infinità di pensieri. Da allora, in memoria di un uomo saggio e per tenere lontana da me la malattia dell’anima, anch’io, come avete potuto vedere, ogni volta che posso riempio di neve la mia ampolla”.
Mentre l’eco di quelle ultime parole si raffreddava in un soffio di tempo a contatto con la superficie dell’aria, Marie, che aveva seguito rapita l’intero racconto di Kassandra, aveva la sensazione che dentro di lei si stesse finalmente disfacendo qualcosa di antico, una specie di calcificazione spirituale che, tornando a infiammarsi, le rivelava di sorpresa, con la dolcezza estrema di un dolore rigenerato, di essere una piaga ancora viva e aperta proprio come quelle che possono sempre guarire; e, scossa dalla vampa di un sussulto gioioso, quasi che nel suo grembo fosse sobbalzato all’improvviso un feto immaginario, si era allora resa conto che quella novizia discreta e non di rado misteriosa, perfetta nella grazia come un puro spirito, aveva davvero compiuto un miracolo. Si sentiva dolorante ma sollevata, e non le pareva vero, perché era trascorso molto tempo dall’ultima volta; così, prima di congedarsi da Kassandra, l’aveva voluta abbracciare a lungo, in segno di gratitudine e anche un po’ per prolungare, condividendola nel silenzio fisico di un gesto, la ritrovata e felice compassione per se stessa.
Uscita nel chiostro, si era accorta che nevicava ancora. Era una neve robusta, priva di fragilità, che probabilmente sarebbe caduta senza sosta anche nei giorni a venire. Marie si era avvicinata alla grande cisterna che stava al centro del giardino, aveva estratto da una tasca del suo abito monastico il foulard di seta, ultimo avanzo e muto testimone dei suoi giochi d’infanzia con Anna, lo aveva arrotolato intorno al flacone vuoto dell’inutile infuso preparato a suo tempo per lei dall’alchimista che i suoi genitori avevano sperato potesse guarirla – altro ricordo dell’errante vanità delle cose – e li aveva lasciati cadere nel pozzo, restando a guardare mentre precipitavano rapidamente verso l’acqua e, dopo una capriola quasi festosa, colavano infine a picco sotto una grossa bolla d’aria gorgogliante. Poi aveva sollevato di nuovo lo sguardo verso la neve che scendeva fitta sopra i roseti senza vita e, inaugurato da un brivido lungo di febbre e di freddo, aveva avvertito la necessità di rientrare subito nella sua cella, perché ostinarsi a fissare quei fiocchi che precipitavano meccanicamente in fondo al pozzo, dove l’acqua che aveva appena ingoiato le ultime reliquie della sua antica esistenza li avrebbe subito disfatti senza inverosimile pietà, era diventato inutile come attendere un altro guaritore o addirittura l’apparizione miracolosa della piccola Anna nella speranza di poter cominciare daccapo insieme a lei quel gioco che, invece, era stato sottratto per sempre all’appassionante vanità delle cose reali (Tea rideva in silenzio, ricordando d’un tratto di essersi chiesta spesso come mai nel parco, tra i nove piccoli busti delle Muse allineati lungo uno dei vialetti, gli escrementi degli uccelli si raccogliessero sempre in quantità maggiore nell’occhio di Urania, la musa delle cose celesti).
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti