Negli anni successivi Marie si era dimostrata prima una novizia zelante e poi una devota monaca professa, talmente stimata dalle sue consorelle da essere eletta, dopo la morte dell’anziana Suor Thérèse, nuova priora del monastero.
A dispetto delle veglie, dei tridui e delle novene, però, il suo inesplicabile male dell’anima continuava a tormentarla, così come d’altra parte l’idea dell’azzurrità dell’azzurro del cielo, fortemente rimasta per lei l’unico soggetto degno di essere dipinto benché, col trascorrere degli anni, si fosse trasfigurata nella sua mente nell’umore di un paesaggio alluvionato, afflitto dal moto invasivo della pioggia battente. Nella sua cella teneva sempre una tela già preparata, alcuni pennelli e i colori fondamentali che rinnovava periodicamente affinché, nel caso in cui il grande giorno fosse infine arrivato, come lo sposo evangelico la trovasse pronta.
Per molti anni, tuttavia, non era accaduto nulla; i suoi capelli, ormai tagliati corti secondo l’uso monacale, si erano fatti ancora più spenti così come i suoi occhi sempre più grigi; e ogni cosa aveva dato l’impressione di eclissarsi con metodica lentezza aderendo ai contorni della propria ombra (materiale o spirituale che fosse, perché soprattutto l’invisibile ha il dono della proiezione) fino al giorno in cui aveva bussato alla porta del monastero una giovane ragazza inglese di nome Kassandra Swollenfeet chiedendo di poter entrare in noviziato in quanto battezzata col rito cattolico. Marie era rimasta profondamente colpita dalla nuova arrivata che parlava un francese perfetto, privo di inflessioni, e sorrideva sempre con un amabile velo di pudore non lontano dalla distrazione. Era magra, alta, e aveva una carnagione chiarissima che ben si armonizzava con i lunghi capelli biondi e con gli occhi, la cui consistenza quasi liquida traeva energia da una gradazione di celeste appena sbiadita e trasparente. Kassandra, però, aveva soprattutto una grazia assoluta nei movimenti: i suoi passi scivolavano via veloci, quasi immateriali, apparentemente senza incontrare attrito, e i suoi gesti somigliavano ai mulinelli e alle correnti che scuotono in profondità le acque del mare lasciandone immobile la superficie.
A poco a poco Marie si era convinta che Kassandra Swollenfeet fosse in qualche modo una creatura a parte, aliena e rarefatta come i puri spiriti, e aveva imparato ad amarne il silenzio e l’obbedienza senza tuttavia riuscire a stringere con lei un vero e proprio legame di amicizia. A eccezione delle normali occasioni di vita in comune prescritte dalla regola monastica, infatti, la priora e la novizia non avevano mai avuto un vero colloquio intimo finché, in un freddissimo giorno d’inverno, durante una delle nevicate più fitte e persistenti a cui quella regione avesse mai assistito, qualcosa era cambiato.
Mentre attraversava velocemente il chiostro, Marie si era accorta della presenza di Kassandra. Era china su una delle aiuole e, con la sua grazia irreale, stava riempiendo di neve una piccola ampolla di vetro. Incuriosita, si era avvicinata per vedere meglio, assumendo istintivamente quell’atteggiamento da priora, solenne e premuroso, che si era presto cucita addosso mettendo insieme espressioni e movenze modellate a partire dal ricordo di quelle dei suoi genitori, ma prima che potesse chiedere spiegazioni l’altra si era voltata di scatto, disegnando nell’aria l’onda prolungata di un movimento trasparente, più definito rispetto a quelli incorporei che, stridendo di meraviglia, accompagnavano di solito la sua presenza, e con un sorriso nitido come un’improvvisa raffica di vento le aveva detto: “Voi, reverenda madre, perdonate l’ardire di queste mie parole, siete una donna triste, si vede dai vostri occhi: sono vuoti, il vostro sguardo è stato corroso una volta per tutte da qualcosa che ha preso il suo posto, lasciandovi solo la vista. Perché le persone tristi hanno il cuore cieco…”
Marie l’aveva fissata per alcuni istanti, impietrita e incapace di rispondere, e allora Kassandra, mettendo a frutto quel silenzio, si era decisa a proseguire subito, senza cedere alla facile tentazione di una pausa interlocutoria: “…Voi non siete triste per qualche motivo perché quel tipo di tristezza si può anche camuffare, ha radici salde e lascia lo sguardo pieno, la vostra invece è una tristezza senza corpo, inafferrabile, che sembra stare al principio di ogni cosa come una sorgente inquinata…”
Nessuno aveva mai saputo descrivere il suo malessere con una simile precisione! Marie si sentiva confusa ma comprendeva al tempo stesso che qualcosa di davvero decisivo stava finalmente per succedere.
Per continuare a parlare guardandola negli occhi, Kassandra si era allora sollevata in piedi: “Amo la neve. Ricordo perfettamente il giorno in cui ho visto la mia prima nevicata: allora avrei semplicemente giurato che sarebbe durata poco, oggi so che quel poco avrebbe cambiato la mia vita per sempre. La città nella quale mi trovavo scivolava verso l’oceano sul fianco spolpato di una montagna: pareva la scimitarra di un gigante addormentato. I quartieri abitati dai pescatori, coi loro vicoli e le case biancheggianti tra sprazzi d’oro, azzurro e rosso carminio, si susseguivano in verticale occupando balze sempre più larghe e profonde fino al porto e alle spiagge aguzze di scogli. Tutto era come sempre, tranne che per quella soffice e fitta manna gelata che se ne veniva giù a intorpidire la vita, a biasimare col suo tocco discreto ogni felicità troppo dolce, ogni dolore troppo aspro. A vederla di notte, da lontano, quella città innevata, sfavillante di piccole luci che si riverberavano in bagliori quasi stellari, sembrava pronta per accogliere le statuine del presepe. A qualche brigantino giù nel porto, così come al ribollire delle scie pigre delle barche dei pescatori e alle paranze alla fonda, confusi nell’oscurità sciabordante, si dovevano gli unici, ignorati scampoli di movimento, oltre ovviamente al precipitare infaticabile e leggero della neve. Ricordo che in quei momenti mi era accaduto di pensare spesso a una leggenda che la donna che mi aveva allevata era solita raccontarmi e della quale la mia memoria tratteneva un solo, piccolo brandello, non saprei dire quanto importante: quello in cui si diceva che i fiocchi di neve non sono altro che il calco degli occhi degli angeli…”
A quelle parole Marie aveva sorriso. Anche il viso di Kassandra Swollenfeet si era illuminato di una tenue allegria: “Ascoltate la mia storia, reverenda madre, perché, credetemi, vi guarirà…”
Detto ciò, si era diretta verso la sua cella soggiungendo: “Devo riporre quest’ampolla, se avete la bontà di seguirmi sarò lieta di proseguire il mio racconto…”
Quando Marie aveva annuito facendosi da parte per poter camminare accanto a lei, Kassandra, dopo averle sorriso da dietro un’ombra gelata di docile gentilezza, aveva ripreso a parlare: “Quella era la prima neve che vedevo; non ve ne stupite, reverenda madre: anche se sono inglese ho vissuto a Gibilterra per gran parte della mia vita. Mi ero quindi decisa a entrare in una taverna per riscaldarmi un po’. Ricordo che dietro al bancone c’era un uomo che indossava una camicia piuttosto sudicia e teneva la testa appollaiata sul dorso delle mani mentre i gomiti facevano presa, con un certo, visibile sforzo per non scivolare, sulla lastra di marmo grigio; era stanco e di tanto in tanto sbadigliava, ma dovendo comunque occuparsi del locale si era ingegnato a rimanere sveglio mantenendo l’occhio sinistro smisuratamente aperto per bilanciare alla meno peggio la sonnacchiosa inerzia dell’altro.
Mi era venuta voglia di un tè caldo e, dopo averlo ordinato al cantiniere, ero scivolata dietro uno dei tanti tavoli liberi. Nel locale infatti, che di solito doveva essere animato a malapena dal brioso affiatamento di una ristretta clientela abituale, c’era un solo avventore, un vecchio anch’egli mezzo addormentato davanti a una grande caraffa vuota all’interno della quale i residui schiumosi della birra che aveva appena bevuto componevano strane figure dai movimenti impercettibili. Ero rimasta a osservarle per alcuni minuti nel tentativo svagato di decifrare qualche presagio, come fanno certe ciarlatane coi fondi del tè o del caffè, finché, scrollando via tutta la disattenzione dai miei pensieri, mi ero accorta d’un tratto che il vecchio mi stava fissando, e chissà poi da quanto tempo. Istintivamente, sia con inquietudine che per imbarazzo, avevo allontanato il mio sguardo dal suo, alzandolo verso una delle lunghe feritoie che, dietro grate di ferro a forma di rombo, si aprivano in orizzontale appena sotto il soffitto, giusto all’altezza della strada. Vedendo che continuava a nevicare mi ero subito distratta un’altra volta, con l’incredibile disinvoltura di chi tutto sommato in fondo a sé non incontra resistenze degne di vero ascolto, richiamata dal tenue pensiero delle impronte lasciate dai passanti sopra il manto bianco che di lì a poco altra neve, cadendo fitta, avrebbe cancellato e sepolto per sempre.
Intanto il vecchio, dopo essersi alzato barcollando, si era diretto verso il mio tavolo. Alto, corpulento e imponente com’era, il fatto di vederlo in piedi così all’improvviso, alla maniera dei grizzly quando si sollevano per attaccare, incuteva un certo timore; questo però perdeva in fretta ogni verosimiglianza dinanzi alla sua goffaggine stropicciata dentro la malconcia uniforme della marina inglese che indossava con un orgoglio completamente appassito e malgrado ciò ancora capace di trapelare all’esterno in modo insolito, simile a un tic nervoso, come pure a causa dei suoi occhi torbidi e azzurrini, incorniciati dalla barba grigia e dalle sopracciglia foltissime quasi fossero due uova di storno in un nido di paglia e di sterpi. Quando si era seduto sulla sedia di fronte alla mia con l’atteggiamento spavaldo e a tratti addirittura feroce di chi a modo suo domina e sovrasta il mondo e nonostante avesse un sorriso orribile che mi disgustava per via dei denti giallastri e anneriti negli interstizi, avevo reagito alla sua arroganza facendo volutamente finta di nulla, così come dicono ci si debba comportare davanti a un animale minaccioso. Avevo continuato a sorseggiare il mio tè e a guardare fuori tentando in ogni modo di ignorarlo finché lui, probabilmente abituato a certe ritrosie da parte delle persone rispettabili, aveva disteso sulla superficie del tavolo le sue mani olivastre e grinzose e si era offerto di raccontarmi una bella storia in cambio di un boccale di birra. Giudicandolo importuno e volendo a tutti i costi che lo sapesse, gli avevo sorriso con un’espressione a metà fra il disprezzo e il malanimo, senza fare nulla per nascondere il mio nervosismo spazientito, ma, essendo anche ben consapevole del fatto che non me ne sarei liberata in altro modo, alla fine mi ero decisa ad accettare la sua offerta: avevo ordinato una birra e, con abulica rassegnazione, ero rimasta in attesa. A quel punto il suo volto si era improvvisamente ingentilito, plasmato dalla luce di una grazia insospettabile, e la sua voce, nell’atto di iniziare a raccontare, si era messa a fremere in profondità di molte morbide cadenze rincuoranti mentre vibrava ovunque in superficie per una trama sonora che a partire dai toni gravi della commozione si apriva fino alla purezza quasi cristallina di quelli, cordiali, dell’autentico affetto.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti