Vuoi perché chiamato a dare un’estrema testimonianza del proprio valore di luogo simbolico o magari soltanto per una debolezza strutturale connessa con la sua caratteristica collocazione architettonica, il Salone dell’Ombra era stato uno dei primi ambienti del castello a lasciarsi andare ai cedimenti. L’inizio della sua fine era arrivato con le sembianze quasi accorate di una lievissima infiltrazione d’acqua, una discreta lacrima d’incuria costantemente versata a terra dalla parete spoglia che, mentre in forma di guazze e di muffe induceva alla cancrena la grande catasta delle memorie del talento di Marie, aveva aperto in quel muro, in apparenza ancora solido, all’insaputa di tutti (chi, d’altra parte, in considerazione dell’improvviso e triste prosciugarsi del talento di colei che un tempo ne era sembrata dotata in modo addirittura prodigioso, aveva ancora voglia di visitare quel piccolo magazzino nel quale riposava un’età già sepolta?), una grossa crepa, un’ammissione stanca di fragilità che a poco a poco, riempiendosi d’acqua, si era trasformata nella miniatura funzionante del delta di un grande fiume fiabesco e minaccioso. Un giorno la grande sala si era aperta e subito richiusa su se stessa – come un dormiente all’inconscia ricerca di una posizione più comoda durante un sonno che in realtà è turbato solo dai suoi incubi – provocando il crollo del pavimento e il cedimento della struttura muraria, tutte macerie visibili in parte anche dall’esterno, discreta profezia di tempi ormai prossimi a cambiare.
Privati del riso di Marie, anche i suoi genitori avevano cominciato a invecchiare rapidamente. Il padre, uomo pio, austero e di non larghe vedute (e non solo a causa della grave miopia che da sempre l’affliggeva), aveva considerato addirittura la possibilità di ritirarsi in un convento di carmelitani col benevolo consenso della moglie ma quell’ipotesi era immediatamente tramontata nel momento in cui, da un giorno all’altro, lei era caduta in un profondo esaurimento nervoso.
La bambina, intanto, apparentemente senza stancarsi, continuava a guardare la tela grezza per ore e ore, cullata dal silenzio di pensieri ritrosi ma somiglianti nel loro suono spirituale a quello, calmo e terribile, dello sciabordio dei flutti intorno allo scafo di un natante alla deriva. A volte piangeva; e il suo pianto, proprio come era accaduto in precedenza per il suo riso, finiva per contagiare chiunque le si trovasse accanto: il talento, così come la natura, può e deve a volte cambiare forma, ma non viene mai meno.
Un giorno, tuttavia, all’età di circa quindici anni, era tornata d’un tratto a fare sfoggio di un umore festoso che nessuno ormai sperava più potesse ritrovare e che di conseguenza aveva subito indotto tutti – e in primo luogo i suoi genitori – a fantasticare intorno alla possibilità di un epilogo felice per quella penosa vicenda: si era alzata dal letto di buon mattino e, in preda a un entusiasmo così febbrile da contenere gli indizi di un probabile delirio al quale nessuno, però, aveva più o meno inconsciamente fatto caso, aveva chiesto di poter parlare con un maestro vetraio. Di fronte a quel desiderio sibillino tutti nel palazzo erano stati coinvolti da un’ansia frenetica (“Userò misericordia con chi vorrò e avrò pietà di chi vorrò averla…”, mormorava commosso il padre mentre partecipava a modo suo alla concitazione collettiva) e, dopo aver messo da parte la comprensibile voglia di porre – chi più chi meno – qualche domanda a Marie per capire un po’ meglio il senso della sua strana richiesta, correndo il rischio però di sciupare, contrariamente alle intenzioni, un risveglio forse ancora soltanto istintivo e quindi molto fragile, si era deciso di convocare senza indugio il migliore artigiano del vetro di tutta la provincia. Appena arrivato, Marie gli era corsa incontro mostrandogli un telaio di medie dimensioni sul quale aveva già disteso e preparato una tela di fattura pregevole e gli aveva ordinato di fabbricare una teca di cristallo purissimo e incolore che potesse racchiuderlo interamente, con due passanti alle estremità affinché fosse possibile anche appenderlo a una parete. Quella richiesta, ancora più incomprensibile della prima, aveva lasciato tutti esterrefatti ma anche definitivamente in balia di una dolcissima emozione colma di belle speranze.
Quando poi, dopo alcuni giorni, la teca le era stata consegnata, Marie vi aveva deposto con cura la tela e il telaio e aveva dato disposizioni affinché fosse appesa alle mura del claustrum – il giardino interno del palazzo – sopra le chiome folte dei tigli e dei meli, assicurandosi che un valletto la trasferisse nell’arco di ogni singola giornata sulla parete e nelle zone di volta in volta meglio esposte al sole.
Questa specie di liturgia era andata avanti per un anno intero, al termine del quale Marie aveva manifestato un desiderio irrefrenabile di scoprire cosa fosse accaduto alla tela chiusa nella teca di vetro. L’illuminazione costante (dal tramonto all’alba, infatti, quando non c’era la luce solare, la teca era sempre stata trasferita in una camera piena di candele e di lanterne che venivano accese alla stessa ora ed erano predisposte per durare tutta la notte) aveva impresso sulla tela un velo uniforme di un colore dalla tonalità indefinibile da cui emergevano alcune macchie sparse, più o meno larghe e consistenti, e numerose venature sottili, chiare tracce della crescente e vana tensione al ripiegamento del tessuto – sfibrato dalla continua illuminazione ma pure saldamente inchiodato al telaio – su se stesso. Per certi versi la luce era caduta nella trappola tesale da Marie, rimanendo impigliata tra le fibre e lasciandovi la sua impronta, ma questa aveva una consistenza troppo vaga e somigliava più che altro a uno sberleffo, un po’ come l’odore forte di una grossa preda appena sfuggita alla tela troppo sottile di un minuscolo ragno. Chiamata stavolta a dipingere senza la mediazione di un pittore, la luce se l’era cavata con una certa strafottenza oppure, a seconda del punto di vista, dimostrando un’essenziale povertà di talento. Marie, nell’atto liberatorio di distruggere quello strano dipinto privo di bellezza (l’unico che, sia pure idealmente, possa comunque essere attribuito al suo secondo periodo creativo, altrimenti detto “del pianto”) affinché fosse dimenticato da tutti e senza inutili indugi, si era improvvisamente ricordata di quanto le aveva detto una volta Pierre Moreau, uno dei suoi vecchi maestri: che, cioè, la luce ha bisogno del mondo per dipingere così come Dio ha bisogno dell’amore per creare. Marie, avvertendo in sé il diffondersi di un sentimento nuovo, all’incirca l’evoluzione più composta e meno gioiosa della sua antica pace, si era allora determinata a ritornare alla pittura ma solo nel momento in cui fosse stata in grado di dipingere l’azzurrità dell’azzurro del cielo. Cosa si dovesse intendere di preciso con quel concetto, che l’aveva raggiunta dalle profondità del suo silenzio spirituale nella forma di un’ispirazione involontaria, in verità lei stessa lo intuiva appena, immersa com’era in uno stato di delicata gravità morale contraddistinto per l’appunto da una vivace mancanza di esattezza; ciò che, invece, aveva ben chiaro era il fatto che in quel momento un’epoca della sua vita si era definitivamente conclusa (e a questo punto Tea aveva avvertito il bisogno di prendersi una pausa dalle sue fantasie; si era alzata dirigendosi verso la finestra con la speranza che un po’ di buon vento inglese entrasse dalle imposte socchiuse a flagellarle la vista coi suoi stessi capelli).
Dovendo scontare in qualche modo la colpa originaria della sua ambiguità, quella pace interiore tanto stranamente ritrovata non aveva impedito a Marie di cadere in uno stato di profondo abbattimento. La ragazzina trascorreva le sue giornate da sola, seduta davanti alla tela bianca, intenta a una vaga e incostante contemplazione, nell’attesa disciplinata e tenace delle prime pennellate di quel quadro dal titolo così strano – l’azzurrità dell’azzurro del cielo – che di sicuro avrebbe cambiato il corso della sua vita e, chissà, anche il destino della storia dell’arte.
Gli anni, però, erano trascorsi senza che accadesse nulla di rilevante.
Dopo quelle del riso e del pianto era quindi venuta l’età della tristezza nella quale erano precipitate, come per una frana lenta e inesorabile, tutte le possibili emozioni. Il deperimento di Marie preoccupava i suoi genitori ogni giorno di più, al punto di indurli a chiamare a consulto alcuni illustri luminari della medicina provenienti da ogni parte d’Europa e addirittura un alchimista che, dopo aver percepito un compenso maggiore degli altri, da emerito imbroglione qual era, aveva preparato per lei un distillato di erbe, fiori e polveri segrete tanto egizio e misterioso quanto assolutamente inutile. Marie peggiorava a vista d’occhio. Il colore brillante dei suoi capelli si era attenuato e la loro antica morbidezza mostrava già molte vistose increspature causate dal progredire dell’inaridimento: i fili di seta dorata di un tempo erano diventati più simili a fili di paglia. Anche gli occhi, forse perché eccessivamente rivolti al cielo spento del nord, si erano fatti grigi, meno intensi e più stanchi nel loro volo, pur sempre rapido, sopra le cose. Ogni volta, dopo l’ennesima visita di un medico famoso, Marie ne ascoltava con pazienza i consigli, pressappoco uguali a quelli di coloro che l’avevano preceduto e quindi parimenti inadeguati, mantenendo uno sguardo fisso, in bilico tra l’incertezza e la rassegnazione, mentre una nausea capillare per quelle voci altisonanti, plasmate da sorrisi bavosi e in buona sostanza indifferenti al suo dolore, si impadroniva di lei. Troppe volte aveva subito il loro ottimismo a buon mercato, tutto a carico della sua pelle! In realtà, nessuno di quei medici celebri, e ancora meno dei ciarlatani che avevano promesso di guarirla con rimedi tanto costosi quanto infallibili, sapeva nulla del suo disagio interiore, dei folgoranti sprazzi di entusiasmo ai quali si obbligava a ricorrere per riuscire a muovere un solo passo (in avanti o all’indietro che fosse, dato che il concetto di progresso era stato il primo ad andare in pezzi nel dissolversi di ogni prospettiva di normalità spirituale), seguiti sempre, come in un rituale maledetto, dal calare di una specie di caligine untuosa capace di scinderla senza pietà da qualsiasi persona e circostanza. In quei momenti non c’era nulla da fare: era come se intorno al suo cervello si levasse una nebbia fittissima che rendeva inutile ogni tentativo di afferrare di nuovo la vita, poiché essa scivolava via ogni volta, tracciando solchi vuoti attraverso quella sporca oscurità. Allora, dopo la grande paura e la disperazione, giungeva sempre un’inappagabile voglia di dormire, che era anche voglia di morire, e l’orrore intermittente in presenza di volti, discorsi e avvenimenti tutti spaventosamente omogenei nella loro assoluta inutilità. Alle prime avvisaglie, poi, era tutto un rimpicciolirsi, un cadere in ginocchio vedendo la luna colorarsi di rosso all’apertura del sesto sigillo; quindi si facevano largo la sbigottita speranza di un falso allarme e la pendenza assoluta dell’ultima, fragilissima quiete simile a quella, livida, delle foreste tropicali poco prima del furioso scatenarsi di una tempesta. Facevano presto a parlare, loro, i sapienti, gli uomini di scienza! Dentro di sé Marie era convinta che non sarebbe mai guarita, che quel male infido penetrato nel suo cervello non l’avrebbe lasciata se non nel giorno della sua morte (così fin da bambina le avevano insegnato dell’anima), che non c’era la benché minima possibilità di vincere quella guerra solitaria perché a nulla valeva l’aiuto, per quanto generoso e disinteressato, di chi l’amava contro il grande acquitrino del cuore, la palude viscosa dove a giorni battuti da un sole violento si accodavano notti randagie, sommerse in fonde trappole di liquame nero. Certo, non mancavano i periodi in cui le cose parevano andare meglio, ma la maledizione alla quale ormai si rendeva conto di appartenere per la vita intera faceva comunque sentire la sua oscura minaccia – un rombo lontano, lugubre e lamentoso – nonostante ogni pace più o meno artefatta.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti