“Raccontano allo stesso modo un’antica leggenda e una storia vera che in un grande campo di girasoli viveva un essere che nessuno aveva mai visto. Non era ben chiaro se i girasoli fossero tanto alti da nasconderlo o se invece fosse così basso da esserne occultato per intero, fatto sta che gli unici segnali della sua esistenza visibili dall’esterno erano sempre stati solo i movimenti dei girasoli al suo passaggio. Ogni traccia della sua vita, per tutto il tempo della sua durata, aveva imitato perciò il soffiare del vento che a tratti similmente sfiorava e muoveva quei grandi fiori descrivendo direzioni e sentieri subito riassorbiti da una nuova immobilità. Tuttavia la misteriosa creatura non se ne era avuta a male poiché non aveva mai pensato di uscire dal suo campo per mostrarsi e dire agli uomini: eccomi, io esisto davvero! Così, visto che il vento continua ancora oggi a frusciare tra i grandi girasoli di quel campo sconfinato, la gente può seguitare a non chiedersi se e quando sia davvero nato il suo invisibile abitante e di conseguenza se e quando, come tutti gli esseri viventi, sia infine anche morto tra i suoi fiori. E c’è ragione di ritenere che sia proprio quest’incertezza posta come una taglia sulla vita e sulla morte di quella creatura a rendere ancora possibile la nascita lieta dei bambini”.
Questa storia – che lei chiamava la favola dalla quale cominciano tutte le favole – era rimasta impressa nella memoria di Tea Boot fin dalla sua prima infanzia e per anni si era addormentata ripetendosela nella mente, da sola e nel più assoluto silenzio, quando, dopo l’uscita frettolosa e disinteressata della madre dalla sua stanza, rimaneva al buio e, raggomitolata nel letto, spiava soprappensiero l’alternanza degli addensamenti di luce lunare nei piccoli fori delle tapparelle e le loro smisurate proiezioni sul pavimento e sulle pareti.
Sempre più chiusa in un mondo psicologico al quale erano sufficienti poche parole al giorno, accuratamente scelte, per esternarsi e quindi giustificare e conservare in equilibrio il proprio baricentro, la giovane Tea Boot continuava ad alloggiare – col candore un po’ infelice di una perla rimasta fuori dal filo della sua collana – nella smorta segregazione che le infliggeva, di pari passo con una crescente caparbietà, il desiderio amabile e doloroso di raggiungere l’intimità più assoluta con se stessa, quella che fosse infine impossibile da soverchiare per la farraginosa scorrevolezza quotidiana degli obblighi sociali, anche in quanto agevolata dalla disinvolta latitanza affettiva dei suoi genitori. Per chi la guardasse dall’esterno, la sua vita faceva pensare a quella delle piante d’alta montagna che possono attecchire e svilupparsi soltanto ai margini dei crepacci, sull’orlo dei precipizi: era una ragazzina chiaramente ipersensibile che con angoscia paziente custodiva il segreto, indecifrabile anche per lei, di una dolce creatività fine a se stessa, priva cioè di un oggetto preciso al quale dedicarsi; e proprio questo esercizio quotidiano dell’abitudine, che era rivolta nel medesimo tempo all’incompiuto e all’infinito, ne aveva fortificato la fragilità, facendola rassomigliare a quella, resa ambigua dai millenni, di una roccia friabile come il tufo o il travertino, mentre allenava anche l’acume di una bella intelligenza naturalmente speculativa. Osservandola, si poteva percepire nei suoi modi cortesi e distanti, come pure nella breve durata che quasi sempre, con garbo impaziente, si sforzava d’imporre alle circostanze in cui – fatta eccezione per la scuola – la vita di società la obbligava a uscire di casa, l’indole innocente di una preda, censurata dalla paranoia ma soccorsa dalla poesia. La sua famiglia si prendeva cura di lei sempre evitandola sovrappensiero; il paesaggio inglese, con tutta la sua umida e variegata tenerezza, verso il quale, non perdendo occasione per appartarsi, ella si poneva più dal punto di vista della meraviglia consonante che della pura contemplazione, la consolava certo più dei suoi simili.
Un giorno, mentre il padre leggeva il giornale e Oedipa si stava preparando per andare a presiedere l’ennesima riunione del comitato per le celebrazioni del centenario del torneo di Wimbledon e del giubileo della regina, lei, ricorrendo appena a due frasi aguzze e festose come rametti d’agrifoglio, li aveva messi al corrente del suo certo disinteresse per il tennis e di conseguenza della decisione di interrompere una volta per tutte le lezioni che, peraltro con scarso profitto, stava prendendo da circa un anno. “Vendete pure le mie racchette e date il ricavato ai poveri!” aveva concluso con un categorico riferimento evangelico – adombrando così l’eventualità che la sua crisi potesse avere delle motivazioni mistiche – appena un istante prima di girare i tacchi per tornarsene con vaporosa risolutezza all’assenza indecifrabile che circondava la sua camera, un ambiente che in qualche modo l’occupazione ossessiva e esagerata da parte della sua abitatrice, quasi evocando la manipolazione del vasaio sull’argilla nel momento in cui questa gira vorticosamente sul tornio, aveva trasformato in un luogo indefinito e vergine, svincolato dal resto della casa, anzi sopraelevato rispetto a questa come l’ombra di un palcoscenico su un teatro immerso nel buio.
Brett W. Boot, giacché per lui il tennis era solo uno sport fra tanti, rimpiazzabile senza problemi con qualsiasi altro, non aveva dato molto peso alla cosa, ridimensionandola anzi costantemente e cercando di spiegarla alla moglie come il capriccio di un’adolescente scossa dalle prime tempeste ormonali della pubertà e incatenatasi per reazione alla smania nostalgica e infantile di attirare su di sé l’attenzione degli adulti – “Meglio questo piuttosto che sia tornata a fare i bisogni nel letto o che abbia iniziato a balbettare, no?” aveva sbottato a un certo punto per chiudere la questione senza strascichi una volta per tutte, scuotendo appena la piega del giornale che stava leggendo sulla falsariga di quanto accadeva da sempre al suo temperamento impassibile – ma per Oedipa, già emotivamente frastornata tanto dal suo pubblico coinvolgimento nei lavori del comitato quanto dall’intima e conflittuale sudditanza – irrisolta fra piacere e dispetto e poi tra vergogna e devozione – che provava nei confronti di Lord Finnegan, ovvero dai due cardini della sua recente e imprevista rinascenza sentimentale che, come la rorida bruma che fa sempre da preludio alle migliori mattinate inglesi, si era appunto manifestata grazie al tennis ai margini dell’onesta sterilità della sua vita principale, l’improvvisa presa di posizione della figlia non poteva non avere conseguenze molto più serie.
Si era infatti sentita denigrata personalmente dal disprezzo, implicito nella decisione di Tea e soprattutto nel modo in cui l’aveva espressa, per lo sport che a lei aveva invece offerto l’ancoraggio a un eccentrico stato vitale che, senza compromettersi mai coi più comuni voli pindarici della felicità, non cessava comunque di rassicurarla ogni giorno con la persistenza della sua concretezza. In un arco di tempo relativamente breve, molti e diversi sentimenti avevano contribuito a organizzare la disposizione d’animo di Oedipa di fronte alla scelta irriverente della figlia: la sorpresa iniziale, infatti, era stata avvelenata quasi subito da un livore acerbo, fatto pressappoco a immagine e somiglianza della stessa adolescenza capricciosa di Tea, alla quale però, come la piena violenta di un grande fiume, aveva mischiato anche i detriti di un dolore ineffabile e quindi ancora uno statico turbamento, simile alla quieta desolazione di un paesaggio appena sconvolto da un’inondazione, qualcosa che schiudeva e propagava come fosse foschia il senso di colpa dell’innocenza; alla fine, tra l’impressione materna del perdono e l’egoismo bruciante della rabbia, si era conciliata con la possibilità di una terza via, di una sorta di vicolo cieco in cui la chiusura definitiva nei confronti dell’esistenza di Tea poteva tollerare il disagio di un minimo, amorevole rimpianto.
Qualcosa di analogo, d’altra parte, era accaduto alla stessa Tea in seguito all’ostinata folgorazione che l’aveva indotta a sottrarsi per sempre all’invadenza del tennis, vale a dire del gioco intorno al quale si era man mano resa conto che, per via di un incolore fanatismo quotidiano fatto di abitudini dovute e mediocri, più simile all’orbita sterile di una luna asteroidale che a quella feconda della terra intorno al sole, stava ormai gravitando tutto il mondo da lei conosciuto. Aveva quindi cominciato a deragliare verso una condizione di vita ancora più rarefatta, costantemente ricollocata nella lentezza di una mobilità pensosa e visibile all’esterno solo attraverso l’opacità di un mutismo esasperato. Era come se – sprofondandovi – condividesse la festa solitaria e l’eterna adolescenza dei fiori di un chiostro, tra le api, le farfalle e le sottane delle novizie albeggianti; e si sentisse in tutto simile a loro che, giunto infine il tempo di appassire, la morte coglie, sempre in lieve ritardo, quando sono già spirati da poco. In quella sorta di stato inaugurale aveva iniziato a riconoscere la chiara età della sua festa giovanile come un limpido tempo ormai consumato, giungendo alla determinazione che da quel momento in avanti la luce sulla terra potesse venirle soltanto dai nebulosi spiragli di luminosità più o meno artificiale di un cielo chiamato per sempre alla notte, così che con cauta fierezza – come la neve che cade esattamente nel giorno di Natale – quanto di davvero candido fosse disceso giù anche dalla bellezza sospesa e velata dei delitti e delle colpe sarebbe stato raccolto per intero tra i suoi pensieri. Aveva scelto quindi le costellazioni, come vie sulle quali idealmente passeggiare sotto archi immaginari di viole del pensiero, e poi appunto la neve, che stimava più adatta alla funzione rispetto alla solita pioggia, fin troppo penetrante e sfrenata, per violare la clausura essenziale delle grate e attraversare la fioritura dei gelsomini in cerca del finale più giusto, del luogo bello e pigro in cui la notte, curvandosi molle in un’ansa fluviale, riuscisse a ricordarle una volta per tutte la perfezione di una chiave di violino.
Il sentimento della trascorsa bellezza infantile che, con la stessa malinconia di un capriccio barocco, scivolava via nelle profondità marginali della sua coscienza, incalzato dal sopraggiungere festoso delle sensazioni di una già traboccante adolescenza, le rimaneva in dote come il dondolio di un’altalena al vento di settembre, quando le corde ormai cullano piano e senza tensione l’estate che si addormenta e l’ombra vuota di una bambina che, nonostante se stessa, vuole ancora giocare.
Come una fresca rosa notturna che giunga fedele a mezzogiorno o una rosa bianca posta con anonima devozione di fronte all’antica effige di una santa nell’ombra sfrangiata di una cattedrale, Tea aveva serrato ogni specie d’amore tra le sue mani giunte e ciascun sentimento in forma di didascalia nella sua mente; si era a lungo amareggiata ispirandosi all’idea degli scuri di dentro chiusi per sempre sul famoso balcone di palazzo Capuleti; e era infine tornata a sbocciare di fronte al vaso di fiori dipinto da Marie Blancour, la sconosciuta autrice di un unico quadro, colei alla quale a poco a poco si era accorta di riconoscere i panni della sorella che non aveva mai avuto.
(estratto dal secondo volme)
©Andrea Rossetti