L’agente immobiliare che aveva il mandato d’affitto per l’enigmatico villino ottagonale da me ribattezzato da subito Digamma Cottage e nel quale avevo deciso a tutti i costi di abitare, mi fu presentato in tempi rapidissimi da Lord Finnegan che, dopo avere a lungo elogiato la mia scelta, mi aveva anche confessato – abbassando istintivamente il tono della voce per renderlo più funzionale a una confidenza priva di dettagli – di conoscere piuttosto bene gli ormai del tutto disinteressati proprietari dell’immobile che, trasferitisi da tempo e in via definitiva negli Stati Uniti, avevano fissato per la locazione un prezzo davvero irrisorio, il minimo indispensabile per coprire le spese ordinarie di manutenzione e per pagare le tasse. Non mi disse nulla però, anzi si mostrò molto reticente in proposito, circa il motivo per cui una tanto esibita noncuranza per la villetta da parte dei suoi legittimi proprietari avesse poi preso semplicemente la forma interlocutoria di una proposta di affitto anziché quella di una definitiva messa in vendita.
L’uomo che si occupava della faccenda faceva di mestiere l’antiquario e poi, nel tempo libero, quello di agente immobiliare, probabilmente per arrotondare con qualche entrata extra. Avrà avuto circa cinquant’anni ed era affetto da acondroplasia; viveva rintanato nella sua buia bottega stracolma di chincaglieria dozzinale ben disposta intorno ai pochissimi pezzi di pregio e vestiva alla sudamericana, con un completo di lino chiaro e il panama sempre calzato in testa, sopra quello che aveva tutta l’aria di essere un ondulato toupet color biondo cenere. Quel tocco di cocciuta vanità conferiva al suo viso e in generale al suo aspetto un’amarezza esacerbata del tutto chiusa in se stessa, autosufficiente a partire da una rinuncia categorica agli inattendibili e comunque inutili rischi della speranza. Accanto a lui, immobile sul confine che tagliava di netto l’ombra dalla luce, si scorgeva una presenza silenziosa e defilata, quella del suo assistente tuttofare, un ragazzo alto e magro, sui vent’anni, dalla pelle bianchissima e gli occhi celesti e trasparenti, un angelo senza traccia di beatitudine. In seguito mi disse di essere tedesco, di Düsseldorf, e di chiamarsi Klaus. Aveva una voce sottile, flebile, e ogni tanto balbettava, ma le sue labbra erano gonfie e appariscenti, come quelle di una santa in estasi.
Mentre ascendevamo verso il villino ottagonale che si stagliava costantemente in alto alla nostra destra, quasi addossato contro un cielo cupo – ricolmo fino all’orlo di pioggia tenuta in sospeso dal potere misterioso di una grave severità ammonitrice – e coronato dalle fronde sussultanti degli alberi che parevano fatte col filo spinato, avevo la sgradevole sensazione di essere capitato nel mezzo di uno stupido viaggio iniziatico, tra pensieri disordinati e vagamente spirituali che si aprivano lungo il mio cammino come le corolle dei fiori delle ninfee. Il mio era un imbarazzante arretramento nostalgico su zolle non più coltivate da tempo, scivolose di muffe e lentamente inghiottite da umide pietraie chiazzate di muschi e di licheni. Ero deciso, però, a sopportare quel disagio senz’ombra di rassegnazione, anzi nella prospettiva di trovare proprio in quello strano edificio, con la sua geometria, solida nonostante l’ambiguità sfuggente, una cerniera affidabile tra il prima e il dopo, che in quel momento invece ribollivano ancora, frangendosi contro di me come due parti dello stesso mare in tempesta separate da un cuneo di scogli sovrastanti, rispetto a loro tanto disarmato quanto insindacabile.
L’agente immobiliare, assistito dal silenzioso Klaus, ci aprì il portone con uno strano gesto svogliato, un misto di sciatteria e solennità. L’interno della casa aveva lo stesso odore straniante di una cappella funeraria ma intorno a noi non c’erano ovviamente né sepolture né fiori, anzi era tutto sostanzialmente spoglio ed essenziale, come un accordo in bianco da ridiscutere ancora e ancora, dei puri spazi delineati da mobili buttati lì, già troppo vecchi per aspirare alla gloria di diventare anche antichi. C’era in quell’edificio la tipica atmosfera delle cose che vengono da lontano e che tuttavia non hanno una storia, qualcosa di stantio, fermo a metà strada tra la latrina e il roseto, sul quale nulla poteva l’incalzante ricambio dell’aria mediato dalle grandi finestre che Klaus si era disciplinatamente incaricato di spalancare subito a corrente. Perché si sa che non c’è mai abbastanza vento in Inghilterra durante l’estate, anche quando la stagione si sforza di somigliare in tutto e per tutto all’autunno. L’estate inglese non rinuncia mai alla sua semplice vocazione all’immobilità, a quel suo particolare silenzio screziato di fatui rumori pescati a caso, di tanto in tanto, dal seno di una solitudine assorta, perfetta per una festa parrocchiale o per un Luna Park.
L’estate in Inghilterra è uno di quei periodi dell’anno nei quali chi è solo lo è per davvero, fino in fondo, mesi immobili in cui morire ammazzati è forse l’unico modo possibile di andarsene in compagnia di qualcuno.
La disposizione dei locali era più o meno come l’avevo immaginata. Al piano terra, dopo un vestibolo poco illuminato che serviva da disimpegno e che si allungava in orizzontale ripercorrendo dall’interno l’intera lunghezza della facciata in modo da assolvere a una funzione di raccordo tra gli ambienti posti nel corpo principale e quelli ospitati invece nelle due strutture laterali, tre scalini al centro introducevano in una spaziosa sala di rappresentanza dal grande effetto scenografico che, abbagliando nel transito la vista assuefatta alla penombra, pareva galleggiare tutta dentro un’avvolgente nebulosa di luce bianca, la cui consistenza era quasi liquida, da sorgente d’alta montagna prossima a gelare, inquietante come la lama di una spada e preziosa come un cofanetto pieno di diamanti. Quello che avrebbe dovuto essere l’ingresso era invece una sorta di nartece, separato dal resto della sala da un’iconostasi vera e propria, armoniosamente scolpita in legno di quercia per richiamare le coperture delle pareti e dei soffitti. Era formata da due pilastrini quadrati, posti alle due estremità e scolpiti su tre facce, e altri due mediani più bassi che ricordavano la caratteristica forma ottagonale del piano superiore dell’edificio. I quattro pilastrini erano congiunti da un architrave che s’incurvava nel mezzo disegnando un piccolo arco. Le parti laterali erano chiuse nella metà inferiore da pannelli di legno, decorati ancora una volta con un motivo ottagonale, fitto d’intarsi alla certosina in osso e legno di limone a forma di rosoni, losanghe e altre figure geometriche. Nella parte superiore erano state aggiunte delle snelle cariatidi, cinque per lato, mentre la trabeazione, l’archetto e i pilastri mostravano una lavorazione a bassorilievo: i motivi fondamentali erano la treccia e il tondo, con fioroni, croci, dischi, foglie e uccelli.
Al di là si allungava la grande sala vera e propria, anch’essa interamente rivestita in quercia ma ingentilita da festoni decorativi scolpiti nel legno che servivano da cornice ad altri pannelli dorati su fondo turchese, in stile Luigi XV, contenenti sculture e dipinti di varia selvaggina, mute di cani, scene di caccia e fucili; nella parete di fondo si aprivano, invece, tre imponenti finestre rettangolari affacciate sul giardino interno, ormai quasi del tutto inselvatichito a causa del prolungato abbandono, e scandite da colonne doriche, anche queste scolpite in legno, una sorta di richiamo alle origini, a uno spirito di possente gravità primitiva, di massima semplificazione degli ornamenti, che in un certo senso correggeva la tentazione alla leziosità rappresentata delle boiseries.
Sulla parete di sinistra era collocato un camino settecentesco scolpito in marmo Serrancolin – lo stesso utilizzato per il castello di Versailles – con le caratteristiche del cosiddetto stile reggenza, vale a dire quello della transizione tra Luigi XIV e Luigi XV, che pareva l’occhio femminile di un’istitutrice, profondo e sobriamente truccato, posto a vigilare sulla spregiudicata e per certi versi giocosamente infantile ampiezza dell’ambiente al fine di riportarla alle più giuste angolazioni e a una composta fuga prospettica, all’integrità pertinente degli spazi e dei volumi, a una vocazione finale in definitiva più terrena che mondana.
Il pavimento era un misto di eleganti piastrelle Minton lavorate a encausto e lastroni di pietra; e marcava una volta di più l’ambiguità sovrana di un luogo che, non potendo per sua natura essere rivendicato sensatamente come proprio da qualcuno, pareva mirabilmente destinato a rimanere per sempre in sospeso, a disposizione – ma non in balia – di tutti, come nell’insoluta continuità di un’ideale e metaforica prostituzione.
Il corpo di sinistra, come avevo intuito sin dall’inizio per via del corrispondente comignolo sul tetto, ospitava la grande cucina, al momento completamente vuota, ripiegata in un grigio ma solenne silenzio di assoluta inutilità, così come peraltro le disabitate dispense retrostanti.
Il corpo di destra, invece, che a differenza dei locali delle cucine era collegato all’ingresso tramite un piccolo portale piuttosto spartano, ospitava una saletta dalle pareti foderate con pannelli di legno di cedro che ai loro tempi i proprietari avevano adibito a studiolo e biblioteca e che io trovai con non poco fastidio penosamente anonima, in stridente contrasto con l’emozionante e viva indeterminatezza di tutto quanto il resto.
Dal grande salone si accedeva al piano superiore per mezzo di una perfetta scala a chiocciola, una vera e propria opera di sapienza cartesiana, una spirale logaritmica costruita sempre in legno di quercia la cui ringhiera era scandita da pilastrini sui quali insistevano piccole sculture raffiguranti scene mitologiche, le stesse riprodotte nell’affresco in stile neoclassico che decorava il soffitto sopra la scala ma che, a differenza di tutto quanto il resto, non si presentava in buono stato di conservazione, dando anzi l’impressione di essere sul punto di sbriciolarsi addosso a chiunque facesse scricchiolare più del dovuto i gradini sotto i suoi passi, in un lancio carnevalesco di evanescenti coriandoli di intonaco colorato. Me ne venne all’istante l’impressione affilata e dolorosa di un divieto; e tutt’a un tratto fu come se un’avvilente infermità avesse colpito il mio stato d’animo di fronte alla più semplice e quindi meno prevedibile tra le manifestazioni del decadimento della bella relazione tra l’arte e la geometria che avevo dato sempre per scontata, in generale portandosi dietro l’intuizione sapiente di una crisi irreversibile dell’estetica, e spiando poi in particolare la presenza infelice di un paradosso insito nella mia stessa ascesa verso l’ottagono superiore. Era come se, addentrandomi in quella specie di conchiglia di Nautilus, io, ormai confusamente inconsapevole della corale presenza dei miei accompagnatori, mi facessi carico – con tutta l’ingenuità dell’innocente e come se si trattasse del più mortifero dei peccati possibili – del destino del sorriso strano di Monna Lisa diluito nell’orecchiabile liquidità quotidiana, avventata e giocosa, del mare della Manica, mentre venivo piegato fino all’estrema lacerazione interiore dalla metamorfosi di un fiore di girasole nella curva dell’andamento del mercato azionario.
Il mio primo pensiero – il più banale e carico di ordinaria ansia salutista – fu che potesse trattarsi di un malessere causato dall’innegabile abuso delle pasticche di DOG, alle quali ricorrevo ormai più volte nel corso della stessa giornata, in altre parole l’avvisaglia della pericolosità della mia crescente dipendenza fisica e psicologica da quella droga stravagante; ma si trattò di una preoccupazione passeggera perché mi accorsi quasi immediatamente che il disagio oscuro nel quale ero precipitato subito dopo l’ingresso in quella spirale ascendente verso il piano ottagonale non coinvolgeva soltanto me bensì anche i miei accompagnatori, colti all’improvviso da un turbamento palpabile che si lasciava intendere per intero nel loro immediato e contemporaneo silenzio, in tutto identico al mio: eravamo stati ammoniti all’unisono dalle contraddizioni materiali di uno splendore tanto inoppugnabile quanto deviato che emanava dall’anima meccanica e per nulla soprannaturale di quella scala.
Giunto in cima sbucai da ultimo nel cuore del sospirato ottagono con la stessa commossa emozione del matematico che dimostra finalmente il teorema della sua vita, quello prima intuito e poi inseguito per anni senza mai soccombere alla fatica intellettuale e all’abbattimento morale.
A differenza di quanto avevo istintivamente dato per scontato la prima volta guardando l’edificio dall’esterno, l’ambiente era unico, privo di suddivisioni, e appariva smisuratamente grande senza esserlo per davvero: le proporzioni, la prospettiva, la materia, ogni particolare, dal più importante al più marginale, convergevano al servizio di un’esagerazione ottica tanto vitale e diversa da addomesticare fino all’impotenza la banalità di qualsiasi illusione.
Secondo logica, visto che il bagno padronale – al quale si accedeva salendo i gradini di una stupefacente, ultramoderna, sospesa e quasi immateriale scala da interno a rampa unica in vetro e con moduli base di acciaio fissati alla parete – si trovava nel sottotetto, e precisamente nella zona degli abbaini, come per alludere al fatto che l’apice, il paradiso, la corona regale, l’intelletto, l’anima, l’idea e tutte quelle cose che gli uomini ritengono o hanno ritenuto di dover considerare in alto non potessero avere per la loro superiorità una forma più credibile di quella di un gabinetto, la sala ottagonale era uno spazio privato, chiuso in se stesso con la timida pensosità di un assiolo, un misto di camera da letto e studio, qualcosa di analogo a ciò che nelle celle certosine è chiamato cubicolo.
Mi trovai di fronte alla più sensibile rarefazione del vuoto nella quale avrei mai pensato di potermi imbattere, che mi procurò un’anomala vertigine, statica e quindi idonea a precipitarmi soltanto nella forma tutta spirituale di una sindrome, una consapevole crisi di kenofobia imperfetta, inasprita dal volo circostante di stilizzati aironi migratori, ordinati in stormi sottintesi, cesellati sulle pareti con tutta la cura di un geometra iperbolico. Essi volavano lungo l’eterno ritorno dall’infinitamente piccolo di nuovo all’infinitamente piccolo ma passando per la loro massima dimensione, e questo secondo natura poneva me di fronte a un evento incontrollabile: la rievocazione ideale, e perciò sovrastante sia la storia che la religione, di un arabesco musulmano, in principio lasciato in sospeso dalla sua ambiguità quasi iconica e poi finalmente liberato dalla propria condizione originaria mediante l’abbraccio alato della verticalità poligonale di quell’ambiente tanto vertiginoso quanto di per sé stabile e finito, a sua volta immune da pesantezze cristiane grazie a un’innata levità che poteva solennemente fare a meno di patetiche contrafforti per sostenere le sollecitazioni delle spinte orizzontali, aprendosi anzi – proprio là dove un pensiero architettonico ancora religioso avrebbe posto sostegni o archi rampanti, testimoni col loro peso, poco importa se più occulto o più esplicito e lineare, dell’impossibilità di raggiungere per fede un’obiettiva elevazione – nelle due terrazze simmetriche, poste a destra e a sinistra dell’ottagono – lungo due dei lati maggiori della croce latina che ne sancivano anche l’irregolarità formale – come i piatti vuoti di una bilancia fissata eternamente nel suo imparziale equilibrio. Quel luogo disegnava lo spazio e ridefiniva la realtà appurandone per astrazione il quoziente di verità e conduceva l’arte, senza prevedere uscite di sicurezza, di fronte alla scomoda necessità di evolversi una volta per tutte in un’esperienza matematica.
Il pavimento della sala ottagonale, sul quale mi muovevo incerto col passo stupido ed esultante di un ballerino ubriaco o anche di un pattinatore principiante, luccicava di ceramica chiara, come fosse uno specchio addormentato, e mostrava una singolare tassellatura non periodica, un irraggiamento di rombi della stessa lunghezza, il più grande con angoli di 108 e 72 gradi e il più piccolo con angoli di 144 e 36 gradi, un mistico tappeto di aquiloni infantili, ridefiniti con inquietudine e grazia da una coloritura a pentagoni in due differenti gradazioni di verde.
Tutto questo, in quanto sommessamente ossessivo, sarebbe stato però invivibile se sugli altri sei lati speculari dell’ottagono non si fossero aperte in perfetta simmetria, come un guanto di sfida lanciato dall’anarchia del sogno all’armonia della realtà, le sei oblunghe finestre rettangolari che, con le loro vetrate Tiffany, rimettevano di nuovo in discussione perpetua la matematica con la poesia.
Dando per scontati il sottotetto, i bagni e gli abbaini, per via della mia naturale – e in questo caso anche implicitamente comica – repulsione per lo spirito bohémien che consideravo uno sterile atteggiamento fine a se stesso, formalmente rielaborato nel tempo secondo la successione delle mode ma mai nella sostanza della sua oggettiva sterilità, chiesi al piccolo agente immobiliare e al suo languido assistente tedesco di poter uscire sulle terrazze, e lo feci poi con la stessa solennità consapevole che ha un falcone da caccia quando si appresta a spiccare il suo volo letale.
Il canto degli uccelli corrugava di nostalgica senilità il grigiore livido del cielo; i fiori e l’erba erano scossi a perdita d’occhio da un vento sobrio che ne faceva vortici dolci di spuma screziata; la campagna era accesa da una vibrazione latente – un’oscillazione morbida e regolare come quella di un metronomo che scandisce l’esecuzione musicale di un adagio con brio – e una campanella lontana, che tintinnava minimamente solo nelle mie orecchie, un’allucinazione acustica determinata dalla memoria e favorita dalla lontananza, mi dettava i tempi della folgorante ricreazione che stava inesorabilmente per concludersi col risveglio dei dati di fatto.
Quelle due terrazze erano altrettante, simmetriche inclinazioni ai crucci irrequieti del clima inglese, sostanzialmente mite ma disponibile da sempre alle piogge improvvise, a volte solo sbarazzine, nella sembianza di piovaschi vagamente soleggiati, altre volte invece più penetranti, sia nella contenuta ma prepotente durata di un cupo temporale che nel grigio ed estenuante protrarsi di un diluvio, e io le volli percorrere tutte intere, più volte, metro quadro dopo metro quadro, come per incrinare con la sfida di quel mio movimento irragionevole la perfezione della luce da direttore della fotografia che le investiva e che pareva fatta apposta per esaltare soltanto sguardi fin troppo consapevolmente statici e prudenti.
Io, in verità, non desideravo affatto guardare, anzi cercavo il luogo inesplicabile nel quale l’evidenza agitata della bellezza circostante trovasse ai miei occhi un confine nell’ombreggiatura di una cecità voluttuosa, affinché potessi riconoscere i tratti del mio riposo nella solidità di un vero orizzonte.
Da lassù guardavo idealmente l’Inghilterra incastonata nel paesaggio e rigida in se stessa, come una donna timida che si fa coraggio e con tutto lo slancio dell’innocenza si appaga masturbandosi, rivestendo così di piacere sommesso il respiro affrettato della sua pudica insicurezza – una carenza sopportabile nell’anonimato del quotidiano ma che con metodo e pazienza il corso del tempo monumentale della storia può addirittura trasformare con successo nel nerbo di un cammino saggio e glorioso a disposizione di un intero popolo.
Tutto ciò che mi stava di fronte riferiva puntigliosamente di un’indole guardinga che dava l’impressione di trasmettere in codice nell’aria una serie infinita di messaggi di allerta, quasi una tacita chiamata alle armi volta ad affrontare e respingere la malizia sottintesa – come nell’erba alta il passo sicuro di un nemico pericoloso – nel mio sguardo sconveniente di esploratore, statico ma proprio per questo fin troppo propenso a diventare visionario. L’ombra della vegetazione, il filo bruno dell’orizzonte o il frullo improvviso di un moltitudine di passeri che si levavano in volo erano per l’anima della nazione, riepilogata dallo spazio e nei dettagli di quel panorama, altrettante opportunità di nascondimento, tagli salvifici inferti non più alla sua vaga bellezza, come quelli che si era auto inflitta nei giorni antichi dell’adolescenza, ma alla paura discreta della donna fatta e determinata del presente, sfiorata appena da un’apprensione materna, opaca di maturità, per il destino delle proprie mani, amate e rivendicate con molto orgoglio volenteroso e qualche astuta reticenza.
Ci si rattrista per tante cose, spesso anche senza una ragione apparente, e a me capitò proprio in quel momento, nel prendere coscienza – forse per caso o forse no – di una mancanza lampante e dolorosa: in quella visione non c’era traccia del mare. Le due terrazze, per quanto dispiegate ed esposte senza risparmio, erano comunque luoghi assolutamente verosimili e quindi inadatti a ospitare miracoli o estasi mistiche; e ciò nonostante quel paesaggio era intriso d’acqua, anzi galleggiava tutto intero nell’acqua: che altro era infatti quella bruma vaporosa che lo irrigava come fosse un ruscello al quale gli alberi e la campagna facevano da letto e da vegetazione? Io stesso sentivo i miei vestiti completamente inzuppati.
Ebbi d’un tratto la percezione che, a dispetto dell’invisibilità del mare, in realtà tutti noi non fossimo che pesci e anfibi d’acqua dolce, in continuo movimento sotto il pelo dell’acqua di una grande fontana e questa sensazione, che davvero ribaltava ogni cosa, mi rasserenò a tal punto che, cercando lo sguardo sempre più ansioso del piccolo agente immobiliare, gli dissi con un certo trionfalismo: “Bene, affare fatto, la prendo subito, prima che venga l’autunno, quando le foglie vecchie dovranno infine per forza cadere tutte quante”.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti