La scelta della casa che avrebbe dovuto accogliermi durante il soggiorno a Wimbledon, in vista della mia programmata partecipazione alle qualificazioni per l’accesso al tabellone principale del grande torneo del centenario dell’anno successivo, non fu affatto semplice. L’abitare per me era sempre stato complicato perché non si trattava soltanto di definire le proprietà di un’azione in quanto tale ma anche tutte quelle della sua durata e ciò andava ben oltre i mezzi nonché i limiti coscienziosi del mio radicale empirismo, coinvolgendo necessariamente nella pianificazione le seduzioni dell’immaginazione, il desiderio – sempre in odore di speranza e quindi alla lunga di religione – e poi l’auspicio sentimentale, fino a lambire addirittura il romanticismo metafisico della preveggenza; tutto questo a svantaggio della chiarezza delle idee, che è invece l’irrinunciabile fondamento di ogni oggettività capace di essere poi nei suoi effetti anche adeguata e costruttiva.
L’abitare è di fatto un salto nel vuoto perché non si limita al puro e semplice avere luogo, che in quanto tale, appellandosi alla realtà. svolge invece una funzione positiva mettendo fuori gioco tanto l’essere come concetto quanto l’esistenzialismo tetro e bacchettone che ne consegue, ma inesorabile pretende la visione, e questa, troppo spesso, non si sottrae alla voglia di farsi pure visionaria.
Per arginare il problema decisi di procedere innanzitutto a partire da una conclamata contraddizione, vale a dire immaginando di creare ad arte un attrito definitivo tra l’esterno e l’interno della mia prossima casa. Con lucidità elementare perseguivo in tal modo l’eccentrico effetto stabilizzante che un cortocircuito architettonico di quel tipo avrebbe senz’altro potuto esercitare sull’intera durata della mia permanenza nell’abitazione che stavo per scegliere, giacché nulla come un organico controsenso in partenza – tale cioè da rendere ragionevolmente complicato il momento iniziale dell’intero processo operando in funzione di un’anomala chiusura disturbante invece che per la solita apertura progettuale – è in grado di fornire una soluzione al problema semplicemente rovesciandolo, ponendo cioè l’indole della pianificazione di fronte all’impellenza di un disagio presente da affrontare piuttosto che al disegno di un futuro benessere da conseguire.
Nella ricerca della più verosimile fra tutte le mie impossibili dimore, mi facevo accompagnare quasi sempre dal mio amico Francis Kinkade, che era anche il mio coach, nonché avversario in quasi tutte le mie partite di allenamento – un vero osso duro, soprattutto grazie a un rovescio praticamente inattaccabile e a una straordinaria, istintiva risposta al servizio che, per via delle infinite anomalie impresse dall’erba ai rimbalzi della palla, diventava spesso assolutamente micidiale.
I nostri gusti in materia di luoghi e di paesaggio, però, divergevano drasticamente, dato che lui era affezionato allo stile – soltanto per una sorta di stanca assuefazione ancora credibile e attuale – della swinging London ferma a “Blow-up” di Michelangelo Antonioni, mentre io oscillavo con una ben più briosa incertezza tra la classicità all’italiana di uno stile neo-palladiano e una voglia irrefrenabile di inconsistenza, di una fuga in avanti verso l’alba dei prossimi anni ’80, che già indovinavo interamente sottintesi nella straordinaria invenzione del parrucchiere per uomo.
Il caso o il destino volevano quindi che, almeno per la prima volta, io mi imbattessi da solo nell’edificio che di lì a poco sarebbe diventato il secondo Digamma Cottage della storia d’Inghilterra – dopo quello senza dubbio più celebrato di Ugo Foscolo – e cioè la mia casa, il luogo di riferimento dalla mia vita nel corso di quell’eccezionale e irripetibile anno di grazia.
In verità tutto avvenne con grande semplicità, durante una passeggiata qualunque, anonima e solitaria, in ogni caso priva di finalità e senza pretese.
All’improvviso, con la coda dell’occhio, intravidi un’enigmatica costruzione ottagonale a due piani, che se ne stava arrampicata su un piccolo costone roccioso e che, in forza di una naturale divergenza rispetto a quanto la circondava, pareva stare lì per interrogare il panorama con la naturalezza di un evento atmosferico. Incuriosito, o dovrei meglio dire soggiogato dall’imprecisa quanto risoluta suggestione che quell’edificio mi trasmetteva, salii rapidamente lungo il viottolo privato che portava al cancello d’ingresso e lo trovai mezzo aperto, travestito di fogliame rampicante quasi del tutto secco e di fronde selvatiche cresciute a dismisura; un cartello giallo con la scritta “affittasi” ciondolava di traverso, sorretto soltanto da un cappio di fil di ferro intrecciato.
L’esterno del piano terra – tripartito – era interamente ricoperto da un’imitazione del bugnato rustico ottenuta lavorando con la subbia una pietra artificiale color rosso mattone; il corpo principale, nel quale si apriva il portone d’ingresso, era sagomato in otto lati irregolari, come se a una croce greca più grossa fosse stata sovrapposta una croce di Sant’Andrea più sottile, e sosteneva il piano superiore, mentre a destra e a sinistra si allungava in due corpi laterali che ricordavano alla lontana due ali aperte, che servivano anche da basamento per altrettante terrazze poste al primo piano e dal perimetro identico e appena rettangolare, dalle quali immaginavo si potesse arrivare a vedere Londra tutta intera, come non fosse che una coltre caliginosa di infinite e piccole luci sparse; c’erano inoltre due ingressi più piccoli, uno a destra e l’altro a sinistra, e quest’ultimo, data la simmetrica presenza del comignolo sul tetto, era evidentemente l’accesso esterno alle cucine.
Il primo piano era costituito da una torretta slanciata con le pareti in pietra grigia, la cui planimetria replicava la forma dell’ottagono irregolare sottostante; a parte i due lati che si aprivano sulle due terrazze tramite porte a vetro, gli altri sei – due principali e quattro secondari – erano caratterizzati da grandi finestre oblunghe, con preziose vetrate in stile Tiffany, timpano e cornici alla maniera rinascimentale e piccoli balconcini protetti da ringhiere panciute tutt’intorno. Il tetto, poi, era coperto con losanghe di ardesia, alla maniera francese, e aveva una forma rialzata e strombata chiusa in punta da una sfera di piombo.
Bussai ripetutamente alla porta ma, come avevo già previsto, non mi rispose nessuno. Me ne tornai quindi sui miei passi, lungo il sentiero scosceso e dissestato, cercando ossessivamente di assecondare, con la massima precisione e la più intima gioia possibile, la mia certezza che quell’edificio indecifrabile, posto in cima a Wimbledon come una vigile allusione massonica, sarebbe diventato la mia casa.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti