Per riuscire a dare una parvenza di concretezza e un equilibrio almeno accettabile alla sua sostanziale mancanza di passione e di voglia di vivere che, per una sorta di strambo contrappasso, sentiva invece pulsare più che mai determinate nella sua mente, gli capitava di fare ricorso con sempre maggiore frequenza alle pasticche di D.O.G. (acronimo di Drug of God, la droga di Dio, ma anche soltanto dog, cane, palindromo di God, Dio, ovvero una sorta di bestemmia enigmistica), una misteriosa droga sintetica in confetti giunta fino a lui da chissà dove e rispetto alla quale aveva in breve sviluppato una pressoché assoluta dipendenza. L’ effetto di queste pasticche alleggeriva a tal punto la sua percezione della solidità reale degli eventi, cancellandone la componente deleteria – ovvero i contorni petrosi e la mollezza del liquame centrale – così da rendere la sua vita un’esperienza tanto tangibile quanto del tutto mentale, che i suoi desideri potevano liberamente assumere le fattezze di eventi effettivi senza mai contaminarsi col puzzo della fatica e col necessario squallore imposto dalla molteplicità dei compromessi.
In un certo qual modo, il D.O.G rendeva aulica e rispettabile addirittura l’ingenuità .
Sin dalla prima assunzione l’effetto era stato a dir poco sorprendente: nella mente di Peter si era subito concretizzata la consapevolezza di aver trascorso tutta la vita a perseguire la logica dei paradossi, esercitandosi come un pavone funambolo sulla corda estrema di pensieri minuti, in cerca di un suono, nonostante il silenzio evidente, e appoggiandosi pericolosamente al vuoto.
Intuiva di aver donato il proprio corpo a una specie di ricerca scientifica sull’improbabilità dell’ovvio e la sua mente alla matematica del miracolo, sempre affondando sopra la sabbia di pensieri desertificati, sparsi a vanvera al di là di tutte le sorgenti migliori.
Ogni suo sforzo era stato dedicato a esorcizzare il demone della vita eterna, passando attraverso tiepide malinconie quotidiane, in un universale appartamento – luminosissimo appena, esposto a occidente di una madre perduta troppo presto e a oriente di un padre da sempre asserragliato in se stesso – infine trascurato anche da ogni possibile catasto sentimentale.
Sotto l’effetto della prima, stupefacente pastiglia di D.O.G. egli fu folgorato dalla coscienza implacabile di essersi impigrito all’ombra degli infiniti punti di una retta, che erano stati per lui tanto un rifugio quanto un ordinato rosario di becchime retorico: le lacrime sparse degli eroi, il coraggio degli avi, la mattutina brina dolente, la farina bruciata, battuta e da ultimo buttata via, senza neppure il risultato di qualche biscotto o magari di pani moltiplicati che non fossero pure evangelicamente sedotti da altrettanti pesci, insieme ai chicchi più verdi del grano della patria celeste, disintegrata almeno come la più amena tra le ritorsioni.
Su tutto questo, a futura smemoratezza, nel voler fare da solo le veci dell’intera specie umana, gli fu chiaro in un tragico attimo abbagliante, grazie agli effetti del D.O.G., di aver posto le fondamenta del nulla più assoluto.
Sentendosi come se stesse precipitando nella bocca inoffensiva della bocca di leone, decise allora che avrebbe domato le terre, cambiato l’aria ai cieli, portato il fardello di tutti i pensieri e dei fiati più flebili, quelli che stanno dentro un’agonia o fuori, invero, sul far dell’amore, anche se la pioggia l’avesse messo in croce, volendolo dannato al fango eterno dalla presunzione di una lacrima sola e sbadata.
Nel contempo si sarebbe ben guardato dalle purezze claustrali, dall’anima bella dei santi, dal sangue imbiancato dei martiri, dalle vergini intruse, dalle candele accese: l’eccessiva vivacità dei buoni non è difatti che l’indizio che la loro congiura è pronta per la sua celeste inaugurazione e che, al sollevarsi del sipario, una lama ben affilata, stretta in una qualunque delle molte mani dei giusti, è già pronta a donare estasi a pioggia coi suoi fendenti immortali.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti