L’ultimo e forse il più inatteso degli effetti sconvolgenti che l’uso continuato di questa misteriosa droga sintetica causò a Peter fu lo smascheramento definitivo del bluff del dolore.
Pian piano ma con crescente, incredibile nitidezza, sotto gli occhi spalancati della sua mente chimicamente aguzzata, si compose infatti il mosaico bizantino di un’allucinante verità: il dolore è appunto solo un grande bluff, una sorta di malanno autoimmune che serve agli uomini per spacciare con finti contorni quel dato di fatto – la vita – che invece si presenta loro informe, insapore e incolore, che è in definitiva un inferno senza fiamme, infernale a rovescio proprio per questa sua inutile, stereotipata e banalissima freddezza da ghiacciaia vuota. Soffrire fa il gioco dell’umanità, perché la rappresenta, la scolpisce nel tempo e nello spazio come un bassorilievo, le dà la sua unica, credibile speranza: quella di poter essere disperata. La felicità, invece, è una bocca larga che deride, fatta apposta per dispensare umiliazioni, perché la sua leggerezza è per l’uomo un enigma senza via d’uscita, un’interrogazione a sorpresa che, come ai tempi della scuola, lo rivela impreparato.
Se l’homo sapiens non avesse il dolore si estinguerebbe per la noia, mortificato da un’estasi capovolta, raggomitolata lungo il progresso minaccioso della sua desertificazione dall’adrenalina. Viceversa eccola qui, la nostra specie, nel pieno del teatro del suo dolore: una moltitudine di individui adorati dal pubblico come crocifissi, martiri della frenesia riproduttiva di due, a loro volta sconsolati, genitori, una folla essenzialmente ordinata di esemplari unici, tutti però ugualmente addolorati, lanciati alla conquista, divenuta in questo modo credibile, della pesantezza dell’eternità.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti