“Non si fidi mai per davvero di quelli che ostentano una qualsiasi redenzione, signorina!” disse a Milica il rappresentante inglese di barrette di cioccolato mentre scendevano dal treno, lasciando che all’improvviso si palesasse nel tono della sua voce e nella scansione delle sue parole un’impuntatura di gravità gentile, come una deviazione magica dal contesto. “L’essere redenti implica sempre una tonalità sentimentale un po’ nevrotica, un eccesso di esibizionismo che nasconde il piacere autoreferenziale e compulsivo della salvezza reiterata e l’ansia quindi di ricascarci, quale che sia poi nello specifico il nome del baratro privato di ciascuno! Io ho studiato a Cambridge e ora mi guardi: faccio questo mestiere ordinario e senza pretese, ho scelto io stesso di naufragare così, in modo semplice e lineare, perché se non altro l’essenzialità non è mai una voragine e di conseguenza non fa concessioni alle tante vanaglorie della psicologia. Credo che Wittgenstein, quando decise di lasciare l’insegnamento accademico per andare a fare il maestro elementare, abbia seguito per certi versi un ragionamento abbastanza simile al mio, sebbene, e glielo dico sottovoce e con tutta l’umiltà di questo mondo, ne fosse consapevole soltanto in parte”.
Milica, che in quei momenti di viscerale, gioioso smarrimento per il sospirato arrivo a Weimar non riusciva a fare troppo caso a discorsi simili, che si prospettavano alla sua disattenzione solo come insiemi disordinati di parole per via della loro astrusa complessità e con lo spessore grave e definitivo di un ponderato ammonimento, se ne restava rannicchiata dietro un sorriso di circostanza, sgranocchiando la barretta di cioccolato che le aveva offerto quello strano commesso viaggiatore, al quale aveva infine elargito sbrigativamente un cortese quanto inespressivo saluto di commiato.
Nel frattempo non aveva mai smesso di guardarsi intorno, ansiosa di scoprire tutte le qualità della prima impressione realmente degna di nota che avrebbe ricevuto dalla Germania. Girovagava infervorata e un po’ tra le nuvole in cerca di un taxi, con la valigia stretta nella mano, frusciante di fianco alla gamba, e in bilico sui tacchi troppo alti. Era consapevole del fatto che sarebbe stato senz’altro meglio per lei affrontare quel viaggio calzando scarpe più comode ma la voglia incontenibile e sbarazzina di pavoneggiare da subito di fronte ai crucchi la perfezione slava delle sue caviglie alla fine aveva avuto la meglio su qualsiasi altra considerazione. Fin da ragazzina, infatti, Milica aveva mantenuto col proprio narcisismo un rapporto di immediata e acritica subordinazione.
Frastornata dal freddo e nondimeno vezzosa e incapace di rinunciare alla sua naturale invadenza, era finalmente riuscita a trovare un taxi libero; giacché non parlava bene il tedesco, aveva allungato all’autista un bigliettino su cui era scritto l’indirizzo del suo albergo e anche una piccola cartina topografica sulla quale aveva cerchiato in rosso Rudolf-Breitscheid-Straße; quando ebbe la certezza di essersi fatta capire, rifiatò, allentando insieme la concitazione interiore e la sciarpa di lana che portava intorno al collo, e si sentì libera di cominciare a sorridere luminosamente, accompagnando la leggerezza dei pensieri con la trasparenza dei suoi occhi, finché, mentre sbirciava il percorso dell’auto da dietro i finestrini appannati, dopo essersi sfilata un guanto, con la punta dell’indice della mano sinistra aveva scritto d’istinto, senza chiedersi conto di niente: ich liebe mich selbst, io amo me stessa.
Weimar, dal canto suo, la stava accogliendo con una certa grazia, da quella strana città che era, fresca ma non fredda, grigia ma non triste, accigliata ma non minacciosa: pareva la cicatrice di un’antica ferita stampata sulla coscia del mancato impero millenario.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti