Una volta diventato maggiorenne e dopo essere entrato in possesso dell’eredità dei miei genitori e di parte di quella dei miei nonni, paterni e materni, nonché di alcune proprietà sparse per il mondo che lo zio Dominc, non avendo figli, aveva deciso di intestarmi insieme ad alcune rendite azionarie, e quindi di un patrimonio complessivo di alcuni milioni di sterline, felicemente confuso da uno strano stato della coscienza che – a partire dal primissimo e piuttosto scontato trasalimento emotivo per quell’agiatezza messa tutt’a un tratto dalla sorte a mia disposizione e grazie alla quale ero stato proiettato al di sopra di ogni necessità di principio e di gran parte degli obblighi di fatto – si era a poco a poco evoluto in un desiderio sempre più nitido di quiete e di distacco e nella costruzione dell’ipotesi affidabile di una vita vera da abitare per sempre, grazie al denaro, alla giusta distanza e solo in forma di favola (perché non si può sperare di trovare una logica nella vita senza abbracciare l’inesorabile ragionevolezza della sua malinconia), rivelandomi così, in trasparenza, simile al ricamo tono su tono di un fazzoletto di lino, l’ordito preesistente di un destino imperioso in grado di imprimere una decisiva inclinazione alla mia indole e alla mia volontà, avevo trascorso ancora qualche anno a casa dei miei zii, preoccupandomi soprattutto della mia formazione sportiva – ricorrendo anche, giacché ormai il denaro non mi mancava, ai consigli del grande Fred Perry, che per un po’ di tempo mi aveva seguito, manco a dirlo profumatamente rimunerato, sia durante le competizioni che in allenamento – sino a diventare un tennista sempre più competitivo e infine addirittura la più considerata tra le giovani promesse del tennis inglese, che allenatori famosi e talent scout di prim’ordine tenevano d’occhio con interesse crescente.
A un certo punto però, poiché siamo tutti in fondo continuamente in fuga (d’altro canto nella fuga c’è gioia, ambizione, ripiegamento, inganno, speranza, volontà, emozione, addirittura violenza; la fuga è la vita che impatta sul mondo ed esplode fino a raggiungere lo zero oppure l’infinito, per poi abbandonarsi con la gentilezza di un aquilone al fondo del cratere che essa stessa, unico possibile meteorite della felicità, ha generato), avevo cominciato a pensare alla solitudine di un futuro diverso, davvero lontano dalla mia quotidianità corrente, mentre tutti i miei errori potenziali incombevano su di me privi di contorno come l’odore minaccioso di una fuga di gas sbucata per puro caso, di tubo in tubo e fino ai canali di aerazione, dentro un lussureggiante giardino d’inverno.
Avevo cominciato prima di tutto a pensare a un altro luogo, al posto, alla collocazione, alla dislocazione, insomma a quel tanto di esattezza geometrica e di isolamento geografico che non possono mancare all’invenzione di una vita, a meno che non la si voglia far deragliare nel manierismo romantico di una mera questione di principio, ovvero in una delle tante faccende universali da sbrigare in fretta e furia nel corso del solito particolare.
Ebbene esistono dei luoghi immediati, folgoranti ma anche meditativi e assennatamente tortuosi, che non possono non attirare in modo definitivo l’attenzione di un uomo al quale il suo genetico disincanto rende necessario vivere per ipotesi e sempre in via del tutto sperimentale. Questi luoghi somigliano al lampo spregiudicato che attraversa comunque e meglio di qualsiasi altro uno sguardo impaurito oppure a un naufragio festoso sulla prima riva che, indicata come l’America (si spera sempre con un minimo d’ironia), appare di fronte a un banale gommone travestito per pura goliardia da caravella. Sono luoghi che danno un senso ai tanti sgretolamenti della quotidianità, che compattano le falde più o meno segrete della storia in un certo senso evitando loro di franare, di sbriciolarsi per un eccesso di contraddizione. Sembrano – questi luoghi – l’elettricità scaricata di getto sulle zampette della rana di Galvani, che sono bell’e morte eppure, all’improvviso, trascurano il loro stato e, fatte assolutamente sbadate, si mettono a saltellare come ai bei tempi andati.
Wimbledon è appunto uno di questi posti, sicuramente uno dei più precisi della categoria, ma in più ha una caratteristica unica: una sorprendente somiglianza con una conchiglia arenata.
Chi non ha mai avvicinato l’orecchio a una conchiglia vuota credendo di sentire al suo interno, conservato come in una teca, il moto delle onde del mare? Ebbene, a Wimbledon, in quei momenti unici, composti di rigoroso silenzio da rispettabile sobborgo londinese, porgendo l’orecchio, si può ascoltare sempre una racchetta colpire una palla e un’altra racchetta rispondere, come se la cadenza del tempo e quella del match coincidessero lì e lì soltanto in una musica in tutto simile al mare. E io, che tra l’altro ero anche un tennista, non potevo davvero rimanere indifferente a tutto questo.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti