L’UOMO DISINCANTATO – Fenomenologia di un’estrema mancanza.

Ci sono asprezze incontrate per deliberata intenzione, cime vertiginose dalla distruttività ineguagliabile alle quali si ascende per puro desiderio di disfacimento, e poi c’è la quiete irrisoria ma benevola del dissoluto, quella che accompagna le notti di nessun amore, le miti tempeste ormonali, le malinconie generose che irrorano le sere solitarie. Senza Milica, Elias fumava troppo e abusava del suo grande silenzio sonnecchiando a singhiozzo. Se ne stava sottile in mezzo alla stanza albina, travolto dai sogni vividi di un assopimento sempre troppo leggero per essere riposante, e di tanto in tanto cercava addirittura dolori che non c’erano più, nella speranza di risorgere finalmente dai vivi.
In fondo alla strada cantavano le allodole e le foglie rosse degli alberi stizziti, cadendo e planando in filari ordinati, come schiere stanche di fanteria pervenute al finale della battaglia, vivevano con velata dignità la fase terminale della loro stagione. La bruma andava e veniva, sempre puntigliosa nel suo fare ritorno di fronte al levarsi periodico e ostile del vento, e così, profondamente concentrata in questo altalenante conflitto di nature divergenti, sembrava davvero in tutto e per tutto la sintesi contraffatta dell’esistenza dell’anima. Elias attendeva per inerzia il ritorno di Milica, la lieve donna bianca che, stando a ciò che la sua immaginazione gli riferiva circa le visionarie dicerie dei pianerottoli e dei cortili, l’uomo nero, sbucando d’un tratto con chiara perfidia dall’ondeggiare inebriante e spaventoso dell’erba alta dei fondi sparsi lungo i margini dell’orizzonte, aveva ferocemente mancato di rapire. Il povero Elias, diventato quasi del tutto abulico ma concedendosi inutilmente qua e là dei bruschi risvegli speranzosi, anche solo per lo sporadico abbaiare di un cane randagio in transito spedito per la via, non sapeva ormai cosa aspettarsi, misurando con cura il perimetro dei suoi ricordi migliori col profumo delle castagne arrostite e col fumo delle sigarette che si intestardiva ad accendere e a consumare per due o tre boccate appena, senza soluzione di continuità, mentre si abituava ogni giorno di più al ritmico, ovattato rannicchiarsi delle raffiche di grandine nel ventre liquido della pioggia battente che, selvaggia e annoiata, bersagliava nel frattempo i vetri delle finestre lasciando ai suoi occhi il mondo esterno a tremare e a impallidire, reso così simile all’esterno di un’automobile quando attraversa il velo d’acqua scrosciante di un autolavaggio o a una pittura che, bagnata per errore, si stinge.
Nata come un fatto circostanziale a modo suo non privo di vaste potenzialità, in perenne esitazione tra la morte naturale, quella che è disonestamente uguale per tutti, e la morte spirituale, che – come la scoperta intellettuale della leggendaria profondità della superficie sulla quale si dice che i migliori tra gli ulissidi riescano addirittura a navigare a svista – è invece un privilegio faticoso di pochi eletti, la vita di Milica si era strutturata in fin dei conti sempre come un gioco ininterrotto d’ombra e di penombra, di vertiginosa indolenza e sfigurata spensieratezza; e ormai quindi la luce del giorno, in mancanza di tutto quanto il resto, ne proiettava in giro, a terra o sui muri – nonostante i solchi e le crepe e con una certa sfacciataggine – solamente dei residui, dei tratti marginali, certo in assoluto non incapaci d’incanto, ma ben lontani dalle belle premure materiali del sentimento della realtà.
Gli uomini che per lei si erano eccitati, le macchine che avevano rallentato lungo le strade nel corso di innumerevoli passeggiate, le parole flautate degli apprezzamenti dei cicisbei e i rozzi fischi degli insolenti, tutto era andato perduto, folgorato dalla grande cecità sopraggiunta sulla via di un’altra Damasco, incolto e fuori posto come l’erba che cresce trasandata nei piazzali più inclini alla desolazione tra quelli che costellano le periferie cittadine.
Milica era stata in origine una donna elusiva, poi un fantasma felice e infine l’ipotesi rocambolesca di importanti e dettagliati desideri, e ora di lei non restava che un tenue, cocente mistero, come un appartato bouquet di fiori rosa e senza nome. Fotografie limpide e generose, piccoli oggetti quotidiani e via via indizi e sempre più insipide tracce sparse erano l’apprendistato, l’educazione sentimentale della sua nuova natura, appena nata, tutta in bilico tra il segreto e la domanda.
A Elias, dopo il distacco, toccava il compito di giocare la partita della sua costruzione, l’indagine che, forse, l’avrebbe decifrata. Un gioco difficile, onestamente più per amatori che per dei veri e propri amanti, nel quale la memoria era la contromossa ardita dell’investigazione.
Con consapevole oscenità e assoluta tenerezza, egli si predispose a compiere la sua impresa, svaporando a sua volta nel crepuscolo, avventuroso e risoluto così come si conviene a un dongiovanni che abbia finalmente raggiunto la sua piena immaturità.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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