Una volta venuto meno anche quel fitto insieme di momenti di frequentazione e di empatia che era strettamente collegato ai loro allenamenti e messa da parte, almeno per il momento, in considerazione dell’inatteso deteriorarsi dello stato di salute di Peter a causa della dipendenza dalle pasticche di D.O.G., anche quella passione viscerale per il tennis che era stata impreziosita sin dal primo giorno dalle eccitanti fantasticherie di entrambi – ma specialmente di Peter – intorno alla possibilità di poter vincere un giorno il torneo di Wimbledon, e grazie alla quale un po’ di tempo prima, in seguito al trauma del fallimento annunciato del tentativo – voluto a tutti i costi da Francis ma, se non altro al principio, assecondato anche dal narcisismo di Peter – di far evolvere una bella amicizia come la loro, di per sé già pienamente appagante per l’intimità sincera e il calore che l’avevano da sempre vivacizzata, in una vera e propria relazione tra due ragazzi dello stesso sesso, avevano ritrovato una via emotivamente sensata per evitare di perdersi, i rapporti tra i due subirono un rapido tracollo.
Si trattò, in verità, di un allontanamento irto di inattese sensazioni di fastidio, tutte più o meno simili a quella che si prova allorché, pensando solo a tendere la mano verso una bellissima rosa appena sbocciata per poterla cogliere, ci si trova invece a urtare inavvertitamente col polpastrello la punta di una spina nascosta, e percorso sottotraccia da una specie di elettricità neurochimica, che con sempre maggiore impazienza lanciava le sue scosse irritanti alla frenetica rincorsa di ogni credibile opportunità di distacco.
Era chiaro che ambedue preferivano avere a che fare il meno possibile l’uno con l’altro giacché i loro sentimenti, comparabili a un vasto panorama scrutato da due uomini diversi dalla sommità della medesima collina, il quale da vicino attira decisamente gli sguardi di entrambi pressappoco sulla stessa porzione sottostante di paesaggio, mentre con altrettanta risolutezza li separa poi verso la lontananza, affascinando il primo coi complessi merletti, preziosi per infinite tonalità di verde, e i bordi ricamati, qui aguzzi, laggiù rotondeggianti, di una boscaglia posta a metà strada tra il luogo d’osservazione e un incombente torrione roccioso, e il secondo invece mediante il più estremo orizzonte, quello che quasi svanisce nella luce che pare foschia, che sembra la visione di una melodia blues disegnata a matita sulla linea dell’equatore dal ventaglio delle ombre e dal cigolio dei venti, si sovrapponevano – quasi – del tutto (Peter, infatti, era andato incontro a un grave infortunio, rischiando addirittura di morire, mentre Francis aveva semplicemente perso contro un avversario molto più forte di lui) nel definire lo sconforto per gli esiti fallimentari della partecipazione di entrambi al grande torneo del centenario, al quale si erano preparati tanto meticolosamente quanto inutilmente per anni, trovando anche il modo per continuare a volersi bene – dopo aver preso atto dell’impossibilità di un ritorno all’amicizia perduta come pure dell’evoluzione di questa in un rapporto d’amore – attraverso quella loro passione sportiva; ma poi divergevano anche – e non senza fremere per un’inconfessabile brutalità – giacché Peter, chiuso nella clinica di lusso in cui si era fatto ricoverare a seguito del malore che l’aveva colpito durante l’incontro con Jimmy Connors, era assillato soltanto dall’ansia per il suo stato di salute, mentre Francis, rimasto fuori, libero ma abbandonato alla grama solitudine di un sentimento del mondo scosso ormai fino nelle fondamenta e tutto da ricostruire, poteva irragionevolmente tormentarsi rievocando i fantasmi di vecchi rancori mai del tutto sopiti e quindi rasentare addirittura i confini estremi dell’odio ossessivo, intestardendosi a scorgere nell’antico rifiuto del suo amore da parte dell’amico non una scelta dal suo punto di vista inevitabile ma una violenza deliberata che Peter – solo perché eterosessuale – avevo compiuto contro di lui, e che alla lunga aveva influito negativamente anche sul suo rendimento tennistico. Francis era ben lontano dal prendere in considerazione il semplice dato di fatto di non essere il campione che credeva e di non aver mai avuto le caratteristiche tecniche e caratteriali per diventarlo; né, tra l’altro, si rendeva conto che, anche ammettendo il contrario, a suo tempo lui avrebbe potuto benissimo prendere le distanze da Peter, interrompendo, dopo il suo rifiuto, ogni tipo di rapporto tra di loro allo scopo di salvare e di valorizzare il suo ipotetico talento di tennista; egli, immerso com’era nelle sabbie mobili del suo delirio vittimistico, non poteva in ogni caso accettare di rimproverarsi, di salire sul banco degli imputati della sua coscienza, per non aggiungere anche il senso di colpa allo sconforto che l’insuccesso sportivo aveva inaugurato gettando un’ombra cupa e diffusa su tutta la sua vita. Peter, che invece era nato per scoprirsi un uomo disincantato e che, grazie alla disintossicazione dal D.O.G., si accingeva anche a riconoscersi tale una volta per tutte, divenne così suo malgrado il capro espiatorio dell’irragionevole risentimento e della rabbia, tanto sproporzionata quanto comunque non violenta e intiepidita dalla gentilezza d’animo, di un uomo disilluso. E proprio lungo il solco della differenza che, assoluta, separa il disincanto dalla disillusione, lui e Francis avrebbero sopportato in seguito il peso dell’ultima parte – senza alcun dubbio la più noiosa e mediocre – della loro lunga e bella amicizia.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti