L’UOMO DISINCANTATO – E mia madre era morta per sempre (9)

I ricorrenti richiami al cattolicesimo che quella scena includeva all’inizio in forma di sfumature, sicuramente incalzanti ma pur sempre contenute nei limiti della semplice allusione a causa della confusa vaghezza impressa loro dalla velocità con cui attraversavano il tessuto sentimentale della mia coscienza, emerse da alcune immagini all’apparenza innocue – il prete e i fiori – eppure affilate da un’eco dolorosa ben più profonda, che in qualche modo le trascendeva come un precipizio rovesciato, lasciando cadere tra i miei pensieri, resi densi dall’immaginazione, in un nugolo di frammenti strappati, il filo di un discorso smarrito ma sempre sul punto di essere ripreso da un guizzo sicuro della memoria, avevano avuto, a un certo punto, alcune conseguenze piuttosto importanti. Prima di riferirle, però, è necessario fare un passo indietro per ricordare che mia madre era cresciuta ed era stata educata dai miei nonni nella religione cattolica e che non aveva mai ripudiato queste sue prime radici culturali nemmeno dopo aver conosciuto e sposato mio padre, il quale era invece un fervente anglicano così come i suoi genitori, arrivando fino al punto di scontrarsi duramente con lui allorché si era trattato di fare delle scelte più o meno decisive riguardanti l’ambito religioso della mia immediata e futura formazione; tant’è che alla fine, giacché ciascuno mostrava di non voler recedere dal suo punto di vista, mi era successo di essere battezzato, più o meno di nascosto e grazie a una serie di mezze bugie, non una ma due volte: prima da anglicano e poi da cattolico, come se fossi una specie di piagnucolosa profezia ecumenica del peso di poco più di nove libbre. Col trascorrere del tempo, però, la famiglia di mia madre, mentre lei già iniziava a mostrare una dopo l’altra le penose avvisaglie della gracilità che di lì a poco avrebbe letteralmente sbriciolato la sua salute portandola troppo presto alla morte, era stata sempre più emarginata – in sostanza mi ero ridotto a vederli a Natale e in qualche altra ricorrenza sperduta qua e là nel corso dell’anno – e mio padre, sostenuto soprattutto dal fenomenale carisma di nonno George, un vecchio monarchico conservatore dal carattere burbero e spigolosissimo ma anche dotato di una granitica integrità morale, ex pilota della RAF (ogni volta che incontravo una difficoltà di qualsiasi genere il suo incitamento, spesso sillabato alla Churchill tra le spesse volute del fumo del suo sigaro cubano, era infatti sempre lo stesso: “Per ardua ad astra!”) e rigido antipapista, era riuscito infine a imprimere alla mia sensibilità, grazie a un’opera di persuasione dai modi quasi subliminali, tipo goccia che scava la pietra, fatta di ammaestramenti semplici, brevi ma continui, corroborati dall’influenza costante dei nonni e degli altri parenti anglicani che mi stavano sempre intorno, gli stessi valori della sua. Fatto sta che a un certo punto della mia vita io, ancora bambino, detestavo già tutti i cattolici e provavo anche un’avversione piuttosto snob nei confronti dei parenti di mia madre – che ovviamente, tra allusioni e frecciatine, mi erano sempre stati dipinti, e perciò senz’altro apparivano all’ingenuità della mia buona fede, come persone appartenenti a una classe sociale di gran lunga inferiore alla nostra – e per quella che, sempre indottrinato a dovere, ritenevo la loro abominevole e inammissibile cattolicità. Ecco spiegato il motivo per il quale – e qui riprendo il discorso delle ‘conseguenze piuttosto importanti’ di cui sopra – mentre vivevo o guardavo o immaginavo – ammesso e non concesso che non si trattasse invece di un miscuglio delle tre cose, cioè di una sorta di roveto ardente, trino e inestricabile – la scena del centro residenziale, della villa, del giardino, del prete, delle aiuole e della bambina che correva al di là della siepe, qualcosa, una specie di nausea prima irradiata e poi contratta sempre al centro del mio stomaco, mi aveva impedito una completa adesione, un abbandono davvero felice a quell’esperienza, turbando al tempo stesso i miei sentimenti col disgusto e i miei pensieri col distacco.
Man mano che trascorrevano i minuti, il mio sguardo sulla bambina aveva intanto preso corpo; esso era divenuto, per così dire, più materiale e carezzevole, come se per cogliere compiutamente i retroscena della sua esistenza tanto nel loro primo, incessante scontornarsi quanto nel successivo, e rarefatto, sprofondare, io non potessi prescindere dall’attribuirle prima di tutto una carnalità già donnesca (che era poi la stessa di mia madre da adulta), in grado di fungere da espediente per ancorare un’immagine così ermetica e densa di implicazioni a una realtà emotiva più semplice e ordinaria: in altre parole era necessario che quella bambina, unificando il suo aspetto infantile col mio inevitabile ricordo di mia madre come donna ormai bell’e fatta, attraesse me, bambino maschio, solo in quanto femmina. In effetti la trovavo assai graziosa, se non proprio bella: aveva i capelli biondi, tendenti a una tonalità così perfettamente dorata che a volte sotto il sole parevano addirittura bianchi, di un candore però vivace e fanciullesco, privo del benché minimo rimando alla canizie, e, pur essendo lisci di natura, le erano stati arricciolati nella parte più bassa in abbondanti e flessuose spirali affinché, simili a tante spighe di grano maturo, acquistassero il giusto volume per incorniciare nel migliore dei modi il viso appena un po’ paffutello, dai lineamenti morbidi, culminanti negli zigomi sporgenti, coperti di efelidi e arrotondati come due piccole albicocche mature sopra un ampio sorriso sgargiante; i suoi occhi, poi, erano grandi e azzurri (molti anni dopo li avrei rivisti uguali nelle ragazzine degli anime giapponesi) e sembravano due conchiglie trasparenti scolpite nell’aria e in grado di stare a galla sull’acqua del mare grazie al battito modulato delle palpebre, ben protetto dalla naturale impressionabilità delle ciglia, all’interno delle quali, forse alludendo a un trucco, luccicavano perennemente dei minuscoli cristalli di sale.

(estratto dal primo volume)

©Andrea Rossetti

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