A un certo punto mi ero ritrovato – non saprei dire con precisione se dentro o fuori di me oppure, eventualità questa senza dubbio più verosimile, in che misura nella prima e nella seconda condizione contemporaneamente – lungo uno dei tipici vialetti dal fondo sempre ben tenuto e sovente interrotto da dossi, collocati ovunque alla stessa distanza per impedire forzosamente qualsiasi eccesso di velocità ai veicoli a motore e consentire così ai bambini e alle biciclette di percorrerli e di attraversarli senza correre il rischio di essere investiti, che disegnavano per intero coi loro incroci perpendicolari la superficie a scacchiera di quei centri residenziali, evoluzioni ben educate e rispettabili del concetto di accampamento militare e molto di moda almeno fino agli anni ‘ 70, prima dell’ascesa di Margaret Thatcher, nei quali la media borghesia inglese, che era uscita in grande affanno dalla guerra, salvo giungere appena qualche anno dopo, già economicamente rinfrancata, a salutare con entusiasmo il ritorno al potere del partito conservatore dopo la parentesi comunque utile e consolatoria del gabinetto Attle, e che doveva accontentarsi di esibire e di sperimentare il proprio benessere – anch’esso senza dubbio medio – accettando un compromesso tardo-moderno fra l’edilizia seriale e la residenza esclusiva, amava acquistare le sue ville quasi eleganti, le quali, pur essendo in tutto tipicamente inglesi, per una sorta di misteriosa anima da prefabbricato, avrebbero fatto comunque la loro onesta figura anche in Australia, in Canada o negli Stati Uniti.
Era senza dubbio una mattina d’estate, una di quelle in cui il bel sole del mattino pare squagliarsi intorno a ogni cosa come una caramella morbida ripiena di miele, cosicché la luce, mediata dalle diverse consistenze naturali della materia oziosa di cui è fatto il mondo, si diffonde in bagliori molli di resina e quindi in un susseguirsi di aloni e velature, tra mutevoli rifrazioni che fanno pensare a piccole lamine di madreperla intrappolate nell’ambra. La mancanza di vento, insieme a una calura che, non essendo a sua volta percepibile, davo per scontata solo in base alla sua manifestazione visiva nel paesaggio assolato, un po’ come succede di fronte a un quadro o mentre si guarda un film, mi mettevano a disposizione un luogo tanto indubbiamente vero e palpabile quanto del tutto spirituale, incapace cioè di produrre quegli effetti materiali che altrimenti la sua fisicità mi avrebbe imposti. In un certo senso si può dire che in quel momento io stessi vivendo interamente nei miei pensieri. Di punto in bianco, dal cancello appena lamentoso di ruggine del giardino di una delle ville che si affacciavano su quella strada era uscito un anziano prete cattolico, rubicondo e dondolante nella sua tonaca nera arroventata come l’asfalto che lui, non potendo beneficiare della mia stessa immunità rispetto al caldo, teneva slacciata all’altezza dei primi bottoni per consentire alla sua mano paffuta di passare un fazzoletto lungo il collo con un movimento in due tempi, ripetuto prima davanti e poi dietro senza soluzione di continuità . Incrociandomi, mi aveva salutato per primo, come se mi conoscesse, facendo un chiaro cenno con la testa mentre continuava a sbuffare e ad ansimare; e la naturalezza di quel gesto aveva intensificato in me la sensazione di trovarmi davvero a vivere nei miei pensieri, di essere realmente esistente dentro un cono d’aria artefatta ma buona comunque da respirare, simile a quella che, durante i mesi più torridi, i ventilatori da soffitto delle camere da letto scavano nella coltre dell’afa solo intorno a chi dorme giusto sotto di loro. Qua e là gli uccelli, oltre a volare di ramo in ramo senza muoversi mai, cantavano muti: il loro assoluto silenzio, cioè, mi giungeva plasmato per non so quale fenomeno psichico in cinguettii meccanici che – benché più verosimili – ricordavano quelli dei carillon; e tutto ciò mentre non smetteva d’essermi chiarissimo che tutto in quel luogo – o in quello stato – non era più immobile che privo di suoni. Quegli uccelli graziosi, quelle siepi ordinate, quei fiori delicati come suggestioni di carta velina, lo stesso prete cattolico morbidamente trascinato via dal volteggiare in 3/4 della sua talare, condividevano la stessa vitalità incerta dei soggetti degli antichi acquerelli cinesi – una delle quattro arti nelle quali dovevano cimentarsi i Mandarini, i burocrati letterati al servizio del Figlio del Cielo – nel dare al proprio non esserci un’incantevole forma minuziosa. Nonostante la siepe piuttosto fitta che, al di là del basso muretto di cinta utilizzato come basamento per una recinzione metallica alta meno di un metro e composta da barre cilindriche parallele verniciate di marrone e culminanti a forma di lancia, percorreva tutto il perimetro del giardino della villa dalla quale era uscito il prete, riuscivo a scorgere piuttosto bene l’interno: il bel prato all’inglese rasato con cura alla giusta altezza; i pioppi alti che di tanto in tanto scrollavano improvvisamente le loro fronde al vento ricordandomi un po’ le galline quando arruffano e scuotono le piume; e alcune grandi aiuole poste tra i vialetti, in cui si confondevano, senza alcun criterio definito e con quel disordine accurato che caratterizza lo stile dei migliori tra i nostri giardinieri, i fiori dal cuore giallo e dai petali bianchi e rosati degli anemoni giapponesi, le campanule, che oscillavano inesauste alla brezza leggera forse nella speranza di udirsi prima o poi tintinnare, l’aquilegia, coi suoi fiori soprattutto blu e viola, ma anche bianchi, gialli, arancioni e rosa, con quel bizzarro sperone laterale simile appunto al becco di un’aquila, le belle di notte, ben chiuse in attesa del loro momento magico, le creste gialle, rosa o arancioni degli alti gigli peruviani, le margherite, dalle cupole pensose e coi loro strani petali color viola, porpora e bianchi, e quindi i lunghi steli a spiga, ornati da un gran numero di fiori tubiformi dalle cangianti sfumature di colore, della digitale purpurea.
C’era, in quel giardino, una bambina di circa sei o sette anni che correva veloce, tanto veloce che tra le foglie della siepe potevo vederla muoversi avanti e indietro – a volte incredibilmente vicina al mio sguardo e poco dopo già lontanissima – solo come un’allegra e vitale macchia di colore, come la danza festosa di un dolce fiore cattolico, un crisantemo rosa o un giglio bianco, offerto alla gioia di vivere in onore dell’estate e dell’assunzione della Vergine Maria.
Per riuscire a vederla meglio mi ero spostato verso il cancello, là dove la siepe s’interrompeva per fare spazio al vialetto principale, disegnato con delle grosse pietre interrate, dalle superfici e dai bordi irregolari come le impronte fossili di un brontosauro, poste le une accanto alle altre fino a coprire l’intera distanza che separava l’ingresso del giardino da quello della villa vera e propria.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti