Dunque intuivo e contemplavo quella grande cascata stocastica che a poco a poco si distribuiva in modo sempre più capillare fino ad assottigliarsi in tanti rigagnoli prima di fare sosta, rimanere in sospeso e infine spegnersi nella goccia solitaria di ogni minimo dettaglio; e tutto questo, pur distanziandomi dall’immanenza del lutto e accostandomi viceversa a un eterodosso sentimento trascendente della vita, accadeva in modo perfettamente coerente, come se fosse in corso una sorta di ristrutturazione psichica e logica del rapporto tra la mia sfera emotiva e la realtà.
Mi era accaduto così di ritrovare mia madre, o dovrei forse dire più appropriatamente di attribuirle il romanzo di una nuova vita, giacché quanto avevo fatto, nonostante le apparenze, somigliava molto più a una ricreazione letteraria che a uno sforzo della memoria; e questo grazie all’ebbrezza carica di promesse liberatrici di un’inattesa disponibilità interiore – oggi potrei definirla la sospensione della sofferenza, perché parlare di un vero e proprio al di là del lutto, come avrò modo di chiarire, sarebbe inesatto – che mi aveva posto nelle condizioni migliori per attingere al ricordo di certe voci e all’eco dei molti racconti, quasi tutti di seconda o di terza mano e sempre lacunosi e infinitamente sminuzzati, riguardanti prima di ogni altro, dato che quell’esperienza di ricognizione, nel prendere le distanze dalla tirannide empirica della morte e del suo dolore, cominciava allora a fiorire sotto il segno conciliante e delicato di un ricongiungimento amoroso, il tempo che aveva preceduto la mia nascita, durante il quale il disinteresse di mia madre nei miei confronti, non avendo possibili alternative, poteva godere di una piena innocenza, e cioè quello che andava dalla sua infanzia fino alla prima giovinezza. L’impresa – che proprio allora mi mostrava la sua fattibilità aprendosi al buio profondo dell’azzardo così come il gelsomino notturno schiude i suoi petali e emana il suo profumo soltanto sul far della sera fino nel cuore della notte – di riuscire a conoscere, a incontrare mia madre, sebbene nell’invisibilità del puro pensiero, a un’età nella quale di fatto non l’avevo mai vista e in anni comunque già tanto lontani e sbiaditi addirittura nella memoria di chi, come mia nonna, li aveva effettivamente vissuti, mi sembrava non solo esaltante e a suo modo avventurosa ma anche un primo passo verso una quiete sistematica, come se si trattasse di attraversare a fatica una porta molto stretta avendo in ogni caso la coscienza di essere sul punto di godere dello schiudersi di ogni verosimile sentimento su una piena pacificazione sentimentale, tanto ritrosa sino a quel momento quanto ormai per intero a portata di mano.
In fondo mi stavo comportando come il restauratore di un affresco antico quasi completamente perduto che, a partire dal poco rimasto ancora visibile, qualche tratto del disegno, un mezzo volto, alcuni brandelli di colore sfuggiti qua e là per chissà quale miracolo alla furia devastatrice della polverizzazione e dello sgretolamento, invece di limitarsi a salvare soltanto quei miseri avanzi, adeguandosi così al compito di rinnovare la bellezza primitiva del dipinto nel rispetto del pallore delle sue oramai rare e residue suggestioni così come la sua moralità filologica e lo spirito – conservativo e moderno! – dell’arte del restauro gli avrebbero imposto, decide d’un tratto per qualche misteriosa ragione che quanto sta facendo non è abbastanza e che anzi è addirittura insipido e rinunciatario, iniziando quindi a ricreare l’affresco per intero, inevitabilmente però come una cosa ibrida, spregiudicata, sia vecchia che nuova, come la conseguenza di un accesso di fantasia nel quale la verità non è che lo spunto prezioso, e perciò custodito con amore e rispetto, di una falsificazione magistrale.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti