Quanto poco mi piaceva quel salottino piccolo borghese nel quale ci trovavamo con la nonna! In verità l’avevo sempre detestato, stracolmo com’era di mobili in stile, monumentali e appariscenti – tanto costosi quanto anonimi rispetto a quello che tutto sommato, pur nel mistero semplice di una vaga sensazione infantile, avvertivo essere il senso ultimo e l’estremo talento della bellezza – e perciò defraudato della brillante vitalità che, mentre splendeva ovunque intorno a me, già caratterizzava da cima a fondo lo stile di vita londinese all’alba degli anni ’60, il quale apparteneva interamente, a dispetto della fatua elettricità fantasmagorica dei suoi molteplici splendori, solo ai segreti piccoli degli spazi vuoti, ovvero a quelle zone in cui l’ombra esatta e la luce curiosa della modernità (ma anche il più antico e mite dei silenzi, elettivamente partecipe a modo suo e per vie traverse della medesima, estrema vastità priva d’ingombri) si lasciavano plasmare a bell’agio dall’evocazione di forme, di cornici e persino di una specifica tranquillità, tutte in simmetrico, continuo mutamento. Eppure sempre in quel preciso istante, essendo appena ripiombato nel sentimento esclusivo del lutto, non potevo dimenticare quanta cura avesse posto mia madre nell’arredarlo, temperando con tatto il cattivo gusto di mio padre grazie ai lampi augusti della sua finezza e ponendo un argine al pullulare inconsulto in quell’ambiente di fotografie incorniciate di oscuri parenti defunti, di merletti da beghinaggio sparsi dappertutto, di ninnoli e varia chincaglieria, compreso un orribile pappagallo impagliato, coi suoi bellissimi vasi di cristallo Lalique, che non dimenticava mai di riempire con mazzi sempre freschi di iris e di calle.
Così, ricordando, e scorgendo le lacrime sempre in bilico sugli occhi di mia nonna, ero tornato a piangere anch’io.
Vedendo che non mi calmavo, lei, dopo aver soffocato il suo, di pianto, con uno di quei bruschi soprassalti della volontà che trapelano all’esterno nella forma minima di una contrazione intorno alla bocca e di un breve sospiro nel naso, mi aveva allungato il vassoio dei pasticcini accompagnando l’invito sorridente a mangiarne un altro con un cenno della testa e un’oscillazione rapida della sua mano ossuta. Sulle prime, oppresso com’ero da un groviglio di sofferenze inestricabili tra loro che, chiamando in causa anche un mezzo attacco della mia solita asma, mi impediva quasi di respirare (figuriamoci quindi di mangiare!), avevo rifiutato più volte ma poi, dato che lei insisteva e che dall’aborto repentino imposto alle sue lacrime aveva tratto la legittimazione morale per una caparbia esigenza di condivisione consolatoria del suo sollievo, mi ero concesso un secondo pasticcino e poi, seguendo il guizzo dell’istinto, ancora un terzo. Mia nonna mi sorrideva, finalmente rasserenata, e mi teneva una mano sulla guancia per testimoniarmi il suo affetto e forse anche per trasmettermi la tenace fragilità del suo coraggio, e a un certo punto, mentre gustavo quel piccolo dolce per la terza volta e sentivo in bocca la mandorla spezzata dai miei denti che affondava nella crema e questa che a sua volta si amalgamava al lieve involucro di pasta choux, mi era tornata in mente mia madre – di nuovo come pensiero e non come ricordo – che probabilmente aveva amato la crema pasticciera tanto quanto, forse, l’aveva detestata (e poco importava ormai che la spiegazione più probabile dell’apparente incoerenza fosse che mia nonna, a causa di un abbaglio della memoria, avesse semplicemente prolungato nella sua mente il tempo della passione di mia madre per i pasticcini alla crema che, invece, si era interrotto molto prima, in seguito all’indigestione). Tutto era di nuovo in bilico, aperto, purificato dall’enfasi passionale del dolore in modo analogo a ciò che a volte capita d’estate al caldo più torrido e afoso, quando si alleggerisce dell’umidità grazie al soffio ostinato di un’improvvisa ventilazione e, pur senza discendere di fatto di un solo grado, si lascia almeno percepire con una pesantezza più ragionevole e veritiera, per collocarsi infine dentro di me a quella sapiente distanza di sicurezza emotiva dal mio vero interesse, dal mio autentico piacere e in generale dai miei reali sentimenti nella quale in seguito avrei imparato a riconoscere una delle caratteristiche principali del disincanto. Ciascun boccone di quel pasticcino, ogni volta sempre più condizionato dal sapore della crema e dalle sue convulse ma a poco a poco anche rasserenanti suggestioni, spostava il mio rapporto presente con mia madre dall’ambito passivo della memoria e del lutto a quello dinamico delle incognite e degli interrogativi; e nel fare ciò la rendeva necessariamente non più solo una morta ma anche e soprattutto l’amatissimo punto di fuga di una prospettiva, di una favola potenziale che a partire dall’analisi attiva dei ricordi tendeva ora a ricomporre una realtà d’insieme che il punto di vista, certo ma ristretto, dei miei occhi di figlio mi aveva sino a quel momento sempre impedito di prendere in sincera considerazione.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti