Senza che a rigor di logica, e quindi al di fuori della pura emozione, potessi rendermene conto, l’indole materna dello spazio mi stava cullando – essa cioè si prendeva cura proprio di me che in fondo non ero che uno qualunque, e di sicuro nemmeno il più interessante o meritevole, fra i tanti orfani di madre sparsi sulla faccia della terra – grazie al costante appello alla quiete di uno sciabordio romantico e misterioso, abbastanza simile a quello che, amplificato ad arte, echeggia da sempre sotto le volte dei tunnel dell’amore dei parchi giochi mentre, in quanto apprendisti alle prime armi oppure già da recidivi, e in entrambi i casi comunque assai più ingenui che innocenti, ci si lascia accoppiare, mano nella mano, dal desiderio astratto di una felicità assoluta (non per niente ho imparato presto a detestare l’implicita monomaniacalità di tutte le passioni), generato dal senso di liquefazione universale che in certi momenti, come un beffardo bombardamento di bellissime ma non commestibili ali di farfalla sulle avide tele collose dei ragni, mi veniva trasmesso incessantemente da ogni cosa e che dava infine la giusta consistenza anche alla maternità lunatica del tempo. E in cima a questo fisico, involontario sussultare mosso da un’oscura e ondulata dolcezza, facendomi largo con gli acari e le galassie tra la polvere degli uomini e quella delle stelle, mi stavo concretamente disincagliando dal mio lutto, come una nave arenata al sopraggiungere generoso dell’alta marea, allorquando cerca furiosamente di divincolarsi dal letto mortale di sabbia che le cinge la chiglia mentre le sue macchine vanno a tutta forza avanti e indietro fino al momento in cui, tutt’a un tratto, essa infine si muove, galleggia, si offre ai rimorchiatori che l’hanno attesa senza mai disperare danzando al largo, impazziti d’amore solo per i suoi fianchi.
L’epica stocastica della disseminazione casuale dell’esistenza nello spazio compiuta dal tempo considerato in se stesso, ovvero tutto ciò che poi il punto di vista della coscienza, nella parola umana o nel verso animalesco, percepisce abitudinariamente in termini di mondo, attribuendogli per questo motivo un’illusoria oggettività, combinata all’elegia meccanica della misurazione della distanza tra due eventi nello spazio, sempre a opera del tempo ma in questo caso preso in considerazione al di fuori di sé, e a sua volta a tal punto malintesa dall’intelligenza della mondanità, che non la interpreta come unità di misura della distanza tra due fatti distinti bensì della velocità, supposta appunto in luogo della distanza quale autentico principio delle relazioni oggettive tra avvenimenti, con cui nello spazio un determinato fatto α diviene il fatto ω, da ispirare agli uomini la creazione lugubre e tossica dell’oggetto-orologio (che io infatti odiavo istintivamente da bambino, fino a farmi sanguinare il polso a forza di eczemi atopici pur di non indossarlo, e che continuo oggi a detestare con una determinazione resa ancora più risoluta dalla consapevolezza del rifiuto), mi restituivano la sensazione materna di una poetica porosità dei confini tra le cose e il mondo, raccolto come polistirolo espanso al di là della finestra che cominciava a lacrimare abbondantemente per la condensa come una Madonnina cattolica miracolosa, convogliando gli aloni dell’illuminazione stradale in una serie di fantasmagorici spettri lampeggianti.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti