Mentre me ne stavo disteso sul letto in posizione fetale a godermi il calore della soffice trapunta imbottita di piume d’oca che allora – ai tempi in cui ero un bambino – mi trasmetteva sempre l’impressione fiabesca di avere addosso una nuvola chissà come e perché sospesa a mezz’aria, credevo quasi di riuscire a percepire all’esterno l’intera umanità nella sua essenziale forma sonora di un gocciolamento, di un suono cioè che alludeva senza dubbio a qualcosa di liquido e che anzi, per amore di precisione, stava diventando tale proprio in quel momento; qualcosa di simile alla neve nell’istante in cui, dopo essersi accumulata sopra i tetti delle case durante i rigori invernali, viene colta all’improvviso dal sopraggiungere della prima giornata di sole primaverile e allora comincia a perdere di consistenza, e quindi a scivolare a terra sotto forma di piccole onde splendenti e di lievi spruzzi luminosi, e infine a tintinnare inesorabile, piano all’inizio e a poco a poco sempre più rapidamente, lungo le grondaie e i tubi di scolo, cosicché ogni cosa nel mondo sembra d’un tratto vibrare, impaziente di liquefarsi, di allontanare da sé qualsiasi forma di rigidità per abbandonarsi alla sperimentazione di nuovi modelli di equilibrio gravitazionale, finalmente molli, elastici e ispirati all’ebbrezza di una vocazione funambolica.
C’era tutt’intorno a me un’aria frizzante, piena di mite liberazione, sulla quale mi piaceva restare a galla a osservare dall’esterno la fantasmagoria mutevole delle forme che la distanza imprimeva ai miei pensieri: ero la bollicina perfetta dello champagne quando affiora in superficie e senza mai saperlo vede, attraverso i bagliori concentrici del cristallo della coppa, l’immagine ideale del seno di Madame de Pompadour.
Povera gente – pensavo mentre riuscivo a considerare per la prima volta l’insieme informe di tutti gli esseri umani con un sentimento ambiguo, privo di accondiscendenza ma non di partecipazione, grazie appunto alla liquidità che in quel momento inteneriva a mio piacere tutto il mondo – che all’inizio vive gli anni della giovinezza considerando il tempo come una vasta prateria senza orizzonte, un paesaggio staminale da dare per scontato e in perenne e verosimile accrescimento, o in qualche modo simile a un circuito chiuso di energia che, nel suo frenetico loop, riesce a trasmettere la sensazione di un’eterna apertura, di uno strano varco immobile e fine a se stesso; costoro consumano così sino in fondo quell’adulterato infinito giovanile: lo fanno sempre con ingenuità, spesso anche leggeri e giocosi, ma non di rado fin dall’adolescenza già rabbuiati quanto basta per avvertire il bisogno di ricorrere all’aiuto di un espediente chimico – poco importa se prescritto da un medico tra le mura di uno studio sterile ed eccessivamente luminoso o spacciato da un pusher all’angolo di una strada lercia e fin troppo buia – resosi, col trascorrere degli anni, se non proprio necessario in assoluto senza dubbio desiderabile per contrastare la formazione delle prime incrinature emotive, scongiurando così, almeno per l’immediato, il pericolo di veri e propri strappi irreparabili nell’ordito di un tessuto vitale che, avendo come obiettivo quello di restare a ogni costo in equilibrio su uno stato di verosimile giovinezza, necessita di dosi crescenti e sempre più iperboliche d’immaginazione per sostenersi.
Attraverso il filtro sentimentale creato dal disincanto tutto si semplificava amalgamandosi in una specie di recita a soggetto – mai priva comunque di una certa grazia – dinanzi alle mie confuse emozioni infantili: era l’alba perenne dei vivi morenti (qualche anno prima che George A. Romero rimettesse le cose a posto, perlomeno al cinema), messa in scena tra me e me da un’umanità malamente imborghesita dall’America e dal dopoguerra, ossessionata dai periodici ragguagli delle bilance e degli specchi, dalle diete e dagli integratori vitaminici, dal guizzare dei muscoli, dal tono dell’epidermide e dalla consistenza dei glutei, dedita a quei generici piaceri mossi dalla forza dell’inerzia che sono propri di chi, da buon proverbiale, per godere si accontenta, fa di necessità virtù – e non, viceversa, come sarebbe più opportuno, di virtù necessità – e quindi si predispone a vivere scorrendo di volta in volta il catalogo stagionale dei saldi delle buone motivazioni contingenti più alla moda; il mondo intero era un grande palcoscenico dai fondali multiformi, pullulante di ominidi egoriferiti in perenne all’erta per le varie ed eventuali fibrillazioni relative allo stato della propria salute – di anno in anno tuttavia, come natura comanda, sempre più totemico e meno robusto – e in ogni caso dissipata dietro un’infinità di rincuoranti progetti di prole di successo, di traslochi da casa vecchia a casa nuova, di automobili da comperare a rate, di visite specialistiche da prenotare per tempo a scanso di equivoci e di esotismi vacanzieri in offerta speciale meglio se pianificati in comitiva coi vicini di casa o con i vecchi compagni di scuola.
Pensavo tutte queste cose – io, solitario bambino dal cuore malconcio, rannicchiato sul letto in posizione fetale sotto la nuvola della sua bella trapunta in vero piuma d’oca – e provavo un fortissimo sconforto caritatevole, una forma piuttosto equivoca di compassione posta a metà strada fra la sincerità, pianificabile comunque per gradi e con dolcezza, di una sofferenza che torceva il mio stomaco facendo perno esattamente sul suo centro, appena sotto l’incrocio delle ultime costole, mentre evocava le medesime emozioni aleatorie che avrei provate alla notizia di una strage d’innocenti avvenuta per un motivo qualsiasi in uno qualunque degli infiniti posti lontani da casa mia quanto basta per non farmi sentire coinvolto troppo direttamente e strombazzata in apertura da tutti i telegiornali, senza un briciolo di autentica partecipazione ma sempre con grande dispendio del solito, ritmico pathos proprio di quei consumati commedianti della cronaca che sono i giornalisti televisivi, e la voragine astratta di una nausea diffusa, un desiderio indolente di vomitare nel grembo della sensazione di squallore che avvertivo spalmata senza possibile misura lungo le mie sinapsi e sopra i miei neuroni come un infido velo di burro rancido tra la fragranza del pane e la dolcezza della marmellata. Stavo facendo l’esperienza di un tormento singolare, al tempo stesso leggero e assoluto; e se, fiaccato com’ero da quell’insieme aguzzo di cose, non rimanevo anche completamente inerte sulla superficie del mio letto, lo facevo solo per compiere dei brevi movimenti – comunque sempre più sporadici – allo scopo di cercare coi piedi i migliori rigonfiamenti della trapunta, quelli più caldi, là dove la piuma d’oca si era concentrata per il momento con maggiore abbondanza.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti