Non appena mi aveva scorto al di là del cancello mentre, forse un po’ furtivo nell’atteggiamento ma in realtà più che altro curioso nello spirito, la stavo osservando, la bambina aveva fatto d’istinto un gesto nel quale, come per una singolare crisi di diplopia in cui l’immagine si era d’un tratto sdoppiata di fronte a me non per un difetto ottico ma a causa di una sfasatura temporale tra il presente, occupato appunto da quella visione, e il passato, raccolto invece intorno a un ricordo ben preciso, avevo subito riconosciuto, identificando in una sola persona le figure semi-sovrapposte della bambina e della donna che lo stavano compiendo, mia madre. Anzi, per maggiore esattezza, non si era trattato di un singolo gesto ma di una serie di movimenti che le avevo v
isto eseguire uno dopo l’altro e in modo sempre uguale così tante volte che alla fine avevano assunto ai miei occhi quasi il valore di una coreografia originale, di una di quelle invenzioni, cioè, che rendono per sempre inconfondibile lo stile di una danzatrice: con un guizzo della mano destra si era dapprima allacciata la camicetta fino all’ultimo bottone del colletto bordato da un ricamo a piccoli fiori colorati per aggiustarsi poi senza fretta il gonnellino plissettato tirandolo verso il basso al fine di non mostrare troppo le ginocchia. La sua era stata una spontanea reazione pudica alla presenza di un estraneo ma in quella circostanza, dato che l’estraneo in questione ero io, mi aveva contrariato in modo imprevedibile, come se per lei non riconoscermi e rinnegare ogni familiarità con la mia persona fosse stato qualcosa di assolutamente ovvio laddove a me era invece accaduto fin dall’inizio l’esatto contrario. Quella bambina, nella quale io identificavo, addirittura accompagnandone l’immagine con la proiezione del ricordo di lei da adulta, colei che sarebbe diventata (ma che in realtà era già stata) mia madre, mancava di memorie analoghe alle mie perché si trovava relegata nel molle interstizio di una sfasatura spazio-temporale messa in moto dalla mia immaginazione e resa credibile e solida soltanto dallo stato emotivo in cui, a partire dal sentimento del lutto, mi ero venuto a trovare. La cosa sconcertante era che tramite quel suo gesto di pudicizia così sfacciatamente cattolica – sì, perché non c’era alcun dubbio che lo fosse, come a breve avrò modo di chiarire – lei mi aveva testimoniato l’esistenza di una diversità irriducibile tra le nostre due condizioni che si sottraeva con fermezza perentoria al mio controllo di soggetto moralmente responsabile della visione e quindi di ogni suo possibile effetto: in altre parole, non avevo il diritto di coinvolgere colei che mi stava di fronte con le sembianze di mia madre da bambina nella consapevolezza, appartenente invece solo a me, di essere suo figlio. E di tale irriducibilità, tra l’altro, io stesso avevo fatto uso, in un certo senso legittimandola con la classica, ambigua malafede un po’ capricciosa dei ragazzini, allorché, mettendo da parte la sostanza filiale dei miei sentimenti proprio per poter abusare della differenza che nonostante tutto ci separava (e che in quel momento però m’infastidiva non poco), avevo concepito e giustificato l’attrazione fisica di me bambino per lei bambina rispetto alla quale, in fondo, il pudore – per quanto fastidiosamente cattolico – della sua reazione era stato un sottinteso, accusatorio riconoscimento (nello spirito di quello cosiddetto all’americana, ovvero da dietro uno specchio falso o un vetro oscurato).
Come dicevo, il mio sentimento di schiumante insofferenza per quello stato di cose si era inasprito, scivolando in un gorgo sempre più greve d’irritazione, allorché, credendo di poter fingere una scoperta, avevo ritrovato nel pudore messo in mostra in modo tanto plateale dalla successione di movimenti compiuti dalla bambina secondo uno schema identico a quello che tante volte avevo visto eseguire da mia madre, i caratteri inequivocabili della cattolicità.
Ciò che allora io sperimentavo soprattutto a livello d’istinto e forse, in minima parte, come una vaghissima intuizione, aveva in realtà dei fondamenti storici ben precisi. Non c’è alcun dubbio, infatti, che vi sia una profonda differenza tra gli anglicani e i cattolici – anche se dovrei esprimermi solo al femminile visto che la questione, in linea con la sensibilità patriarcale da sempre dominante nelle varie confessioni cristiane, pare avere poco o nulla a che fare coi maschi – nell’esternare soggettivamente l’uso, condiviso da tutti i monoteismi, di castigare ogni forma di scomposta impulsività, mostrando misura nel comportamento e riserbo nell’espressione. Così come non è certamente un mistero che per i cattolici tutto ciò si faccia carico di una sorta di gravità levantina, di una componente di austera durezza che in sostanza ribadisce le solide radici culturali condivise con l’Islam e con l’ebraismo più ortodosso, anche se poi, nel corso della storia, queste sono state custodite, a causa di conflitti primordiali all’occorrenza ben alimentati dagli avvenimenti successivi, un po’ come dei lapsus, in modo discreto e sempre sotto forma di sottintesi. Gli anglicani, invece, il cui protestantesimo d’occasione è scaturito più che altro dalla concomitanza tra un sentimento nazionale di strisciante irritazione per la rigida tutela spirituale esercitata sull’Inghilterra dal pontefice romano (che in fin dei conti era solo una variante aggiornata dell’antica egemonia politica imperiale dietro la quale aleggiavano, insieme a prospettive di amare mortificazioni per le mire espansionistiche dell’influenza politica e commerciale inglese, anche le ombre sinistre delle trame di nazioni cattoliche rivali come la Francia e soprattutto la Spagna) e le smanie erotiche e riproduttive di un re destinato a convolare a nozze per ben sei volte alla faccia del papa – che in precedenza l’aveva addirittura premiato col titolo altisonante di defensor fidei per la sua condanna della riforma luterana – e dell’indissolubilità del matrimonio cristiano, giungendo molto vicino a eguagliare già nel sedicesimo secolo il record di esuberanza coniugale stabilito poi da Liz Taylor nel ventesimo, hanno sempre rappresentato il pudore in modo molto più istrionico, da interpreti già consumati di un’esistenza considerata dal punto di vista della sua rapida conversione in morbida materia da palcoscenico.
Non a caso il ruolo di vera primadonna del tipico stile scismatico inglese in materia di contegno femminile era toccato alla regina Elisabetta, la prima, figlia di Enrico il furetto, vale a dire il sopraccitato precursore di Liz Taylor, e della sua seconda moglie Anna Bolena (poi frettolosamente decollata per lasciare spazio alla terza, Jane Seymour), che, pur ostentando una carnagione bianchissima ispirata a quella dell’usuale iconografia della Madonna – la quale, bandita nel frattempo dalle devozioni anglicane, aveva lasciato libero un posto di rilievo nel nuovo paradiso all’inglese – grazie all’uso ossessivo, una volta di più molto teatrale, della biacca veneziana, di veramente immacolato aveva sempre avuto in realtà soltanto il titolo di Vergine accordatole prima dal popolo e poi dalla tradizione in quanto morta – forse per compensare l’incontinenza paterna – nubile e senza figli. D’altra parte quale anglicano ragionevole potrebbe in buona fede giudicare una pura fatalità il fatto che proprio durante il regno di Elisabetta il teatro inglese abbia vissuto la sua età dell’oro?
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti