L’immagine di una grande foresta selvaggia, di un’unica, lugubre lama di fitti alberi poderosi in grado di spartire la furia dei venti in centinaia di migliaia di gemiti di anime senza pace e di ululati animaleschi, abitata da interi branchi di mastini dei Baskerville a caccia di prede, inerpicata tra smisurati strapiombi e avvallamenti impervi percorsi con assordante violenza da corsi d’acqua impetuosa, era forse quella che, stando a quanto Elias ne sapeva o, meglio, era convinto di saperne, coincideva di più col punto di vista dell’uomo nero sul mondo, interamente contenuto nello sguardo accigliato e solitario col quale se lo rappresentava intento a scrutare qui una gola tra due pareti rocciose e laggiù i segmenti irregolari dell’orizzonte, oppure una nervatura compatta sul dorso della montagna di prima mattina e poi, a mezzogiorno, il volo largo e rapace di un nibbio reale sopra ogni possibile cosa, a volte addolcito dalla limpida purezza di un cielo quasi giottesco e da poco stellato, altre ancora già immerso nella luce accecante dei suoi verdetti imperscrutabili. Elias immaginava l’uomo nero appollaiato in un nido inaccessibile – un rifugio che gli ricordava al tempo stesso il Berghof di Hitler sull’Obersalzberg e un monastero della Μετέωρα – mentre osservava con sufficienza l’intera umanità, quasi questa non fosse altro che una stupida marea meccanicamente alzata e abbassata come una saracinesca dai chiari di luna. La sua unica difesa da tanto, banale squallore era la crudeltà che, simile a una cotta cavalleresca, a volte lo proteggeva, altre, alla maniera di un mantello, lo avvolgeva, altre ancora invece, come un’amante, si limitava ad abbracciarlo.
Quella foresta ideale scolpiva per sempre nell’uomo nero il tragico slancio della sua guerra anti-umana senza fine, fatta di follia, di barbarie, di disgusto, di rabbia e di vendetta; anche se poi, in sostanza, la sua non era che una storia alimentata da tante storie, ognuna col suo legittimo punto di vista, una polverizzazione di racconti sempre incapaci tuttavia d’innocenza perché tutti allo stesso modo troppo umani per poter sconfinare impunemente fino a un lembo qualsiasi di verità.
D’altra parte, a prescindere dalla sua reale esistenza presente o passata, cos’è ogni uomo qualunque per il proprio mondo se non l’insieme impreciso e volubile di tutte le voci e degli eventi che lo riferiscono? Voci recenti oppure già lontane, cristallizzate nel tempo, ma anche confuse apparizioni spettrali e impressioni immediate e soggettive che esigerebbero sempre la generosità di un lungo raccoglimento in grado di cogliere in esse qualche riflesso autentico di sincera confidenza.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti