La Lady era nata in Cornovaglia, precisamente a Fowey, e aveva trascorso gli anni della sua prima giovinezza circondata dalla migliore borghesia londinese che sceglieva quella stazione balneare per trascorrere la villeggiatura. Lei, essendo di bell’aspetto e appartenendo a una delle migliori famiglie del luogo, si era ritrovata giocosamente introdotta sin da bambina in quel clima perenne da comitiva festosa, tessuto con naturalezza su una cordialità fatta di reciproci inviti, di madri amiche tra di loro nei limiti perentori imposti da un’amabile discrezione di classe e di padri solidi ed eleganti che era quasi impossibile sorprendere senza una canna da pesca o una stecca da biliardo o almeno con un sigaro pregiato tra le labbra o tra le dita.
A giudicare dalle istantanee Polaroid che mi mostrava a centinaia nelle ore più intense e indefinibili dei pomeriggi che trascorrevamo insieme – quando mi consentiva di vederla assorta, quasi mitizzata dalla trasparenza assoluta della luce come una statuina di porcellana di Capodimonte raffigurante Arianna nel momento della massima incertezza, ancora malinconica per l’abbandono di Teseo ma anche già in parte consolata dall’amore di Dioniso – a quei tempi lei possedeva la bellezza calma e distante di una vera sognatrice, che i tratti definitivi e i colori opachi e raggrumati delle Polaroid solidificavano in un ritratto quasi mentale.
Nelle istantanee non era quasi mai inquadrata in primo piano ma sempre dietro o accanto a qualcosa o a qualcuno oppure lasciata libera di abitare a modo suo il paesaggio sullo sfondo; e in alcune aveva lo splendore pacato della vetta nera di un vulcano spolverata appena di neve soffice, in altre la stessa dolce morbidezza di quel latte alla portoghese che da bambino mi preparava la mia prozia solo per dare sicura sostanza alla sua aspirazione di rendermi felice. In quelle foto i suoi piccoli piedi e i suoi talloni sbandati scendevano a patti con la terra che calpestavano lungo delle credibili ipotesi di itinerario, e andavano di fiore in paesaggio e di bacio o abbraccio in stagione, mentre il suo sguardo nascondeva la commozione con la malinconia e il suo sorriso invece la timidezza nella posa inconsapevole. In ogni scatto pareva che stesse sempre riprendendo fiato, lasciando allora il fotografo di turno libero di masticare i suoi pensieri con la mollica di pane di un tramezzino, mentre lei celebrava liberamente insieme a me, in un tempo tanto diverso, l’insperata fortuna di quello scatto, portandosi così avanti nella perfezione delle cose da mettere le mani sui miei occhi per un moto brusco di scherzoso ritegno, come ancora in quel gioco d’infanzia che non passa, che, senza poter rimanere, non può nemmeno andarsene sul serio.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti