Le pareti della sua stanza erano tinteggiate di un bel color malva che, a seconda dell’ora e quindi dell’angolatura e dell’intensità della luce che filtrava dall’esterno, s’imbronciavano in aloni d’ombra e impallidivano per il chiarore ai due apici di una simmetria perfetta, cosicché alla zona scura di muro che da una parte pareva farsi appena concava corrispondeva, esattamente di fronte, un’area rilucente del tutto simile quanto a superficie ma all’apparenza convessa. Grazie al trascorrere ostinato e fremente di quell’intreccio di meridiani e paralleli immaginari (non esenti dal fare a tratti da supporto ai suoi malesseri meteoropatici, di gran lunga aggravatisi, com’era prevedibile, da quando gli era stato imposto di fare a meno delle pasticche di D.O.G.) attraverso lo spazio di poche decine di metri quadrati che lo accoglieva, come pure in virtù dell’abitudine ai bizzosi cromatismi determinati dall’estrema variabilità del tempo atmosferico che stava caratterizzando quel periodo, e giacché aveva davvero ben poco da fare nel corso delle sue giornate, Peter imparò rapidamente a privarsi almeno dell’orologio, un accessorio nei confronti del quale sin da bambino aveva coltivato peraltro un implacabile sentimento di insofferenza.
Poiché quella clinica ospitava soprattutto pazienti psichiatrici o con problemi di dipendenza da alcol o droghe, per i quali il fatto stesso di vivere in un ambiente caldo e gradevole costituiva senza dubbio un vantaggio di capitale importanza, il pavimento della sua camera, così come quello di tutte le altre, era ricoperto da un bel parquet in legno di ciliegio americano dalle accattivanti tonalità di colore che spaziavano dal rosso intenso della maggior parte dei listelli, digradante fino al bruno in quelle zone dove pareva voler evocare vortici riposanti o piccole onde, a intarsi improvvisi, messi volutamente in risalto dall’accostamento a forma di lisca di pesce, la cui colorazione più bionda tendeva in alcune fibre quasi all’oro al punto che, se si era fortunati, verso le tre del pomeriggio, nelle belle giornate di sole, quando i fasci della luce li inondavano in pieno, quasi abbagliavano come la sabbia bianca di certe spiagge tropicali. C’era poi una sola finestra vera e propria, piuttosto grande, una specie di trifora ad aperture rettangolari, oblunghe a sufficienza per prevenire l’eventuale gesto sconsiderato di qualche paziente durante una crisi; e poi un’armoniosa vetrata istoriata suddivisa in alcuni sportelli apribili dal basso, posta a circa venti centimetri dall’angolo col soffitto e montata in un telaio che ricalcava per tre quarti la lunghezza di quella delle due pareti maggiori che dava sull’esterno: un autentico caleidoscopio di forme geometriche e di colori che rendeva l’illuminazione naturale della camera al tempo stesso astratta, giocosa e rasserenante come un disegno di Mirò. Il letto era a una piazza e mezza, quindi piuttosto comodo, basso, essenziale e del tutto privo di spigoli, cosicché la morbida tranquillità del riposo che prometteva pareva riassunta anzitutto nella sua forma a beneficio dello sguardo. Accanto c’era un bizzarro comodino, completamente trasparente e a prima vista quasi immateriale, tanto che, specie da certe angolature, gli oggetti che sosteneva parevano tutti sospesi a mezz’aria: era infatti costituito da un’unica, spessa lastra di plexiglass, curvata a forma di zeta e quindi ritorta in modo da ricavare un vano laterale nel quale potevano essere infilati i giornali e le riviste e un piano orizzontale da utilizzare invece per le classiche finalità di un comodino propriamente detto. La porta richiamava lo stile dei telai della grande finestra: era in legno, bianca, laccata, a due pannelli, con i coprifili in stile impero, due intagli a diamante in alto, a destra e a sinistra, per ornare le intersezioni, e una cimasa superiore; le scanalature sui coprifili, il perimetro dei pannelli e quello della cimasa erano coperti in foglia d’oro mentre le decorazioni pittoriche, tutte di colore blu per rievocare lo stile Côte d’Azur, riproducevano piccoli fregi e boccioli di rosa.
A parte qualche passeggiata lungo i viali del parco della clinica che, per non starsene a camminare tutto solo in mezzo allo scarno e spettrale viavai che ogni giorno caratterizzava l’avvicendamento casuale e parimenti l’incrocio dei ricoverati nei vari momenti che ognuno di loro sceglieva per un po’ di ricreazione all’aria aperta, faceva coincidere sempre con la visita di un parente o di un amico, Peter trascorreva gran parte della giornata nella sua stanza, e più specificatamente nei pressi della grande trifora, a volte seduto su una poltrona a leggere i rotocalchi sportivi e le riviste d’arte contemporanea o altrimenti a fumare dei sigari pregiati (che erano diventati il suo nuovo vizio per così dire ‘transizionale’, quello cioè con cui, a causa di un atteggiamento ancora immaturo e quindi confuso e difensivo rispetto al disincanto, tentava di indirizzare su un oggetto diverso dal D.O.G., che ormai gli era vietato, la sua assuefazione all’idea stessa della dipendenza quale unica modalità realistica per poter agganciare la vita a dispetto di tutto), ma non di rado anche solo a osservare di nascosto il mondo esterno con l’alata rilassatezza di uno sguardo affatto disimpegnato e proprio per questo capace di sostenere nel migliore dei modi le sollecitazioni di una curiosità finalmente libera di tornare a giocare con la propria infanzia.
A causa dell’ubicazione della sua camera riusciva a scorgere il parco soltanto in minima parte, appena un angolo grigioverde sullo sfondo, una specie di sbavatura di colore incastrata sulla porzione più remota dei tetti bruni, cosparsi di lucernari e soprattutto di comignoli, alcuni in cotto, che parevano sperduti minareti lillipuziani, altri metallici, alla parigina, posti viceversa sempre a gruppi e in successione come le canne di un organo sepolto sotto le tegole o una colonia filiforme di gatti in calore guardati con gli occhi di Alberto Giacometti mentre aspettano l’apparizione accorta della luna.
Su gran parte del chiostro sottostante aveva all’opposto una buona visuale e, sebbene più schiacciati dalla prospettiva, poteva intravedere anche i due cortiletti che modulavano l’edificio verso l’ingresso e la facciata principale, i quali, osservati da quella posizione, uno accanto all’altro, gli ricordavano un po’ l’intreccio delle due asole dell’infinito.
Incastonato nelle cornici delle tante finestre, il movimento dei medici, degli infermieri e del personale di servizio all’interno gli si offriva astratto, colto al di fuori della sua piena scorrevolezza cinetica e quasi disegnato in un viluppo scomposto di vibrazioni alla maniera della figura nuda che scende le scale dipinta da Duchamp; mentre poco più in là, appena sulla destra, oltre una robusta inserviente intenta a scuotere e a colpire con un enorme battipanni in vimini un materasso riverso su un davanzale, lo attendeva, fedele come un amore appena dichiarato, l’apparizione della giovane cuoca segaligna dalla cuffietta rossa che a intervalli di tempo sempre uguali usciva sul ballatoio per fumare una sigaretta, di tanto in tanto abbracciandosi forte e avvinghiando le caviglie una dietro l’altra a causa del freddo; o ancora gli capitava di veder sbucare dal nulla al centro del suo campo visivo l’anziana demente che ogni mercoledì prendeva una boccata d’aria fresca nel giardino fiorito del chiostro, muovendosi a passi brevissimi e sempre sottobraccio con un’infermiera premurosa dai lunghi capelli rossi e un po’ arruffati alla quale, eccitata, indicava sovente l’apparizione in volo di un passero o di un merlo, ritrovando così per un attimo, immutata a dispetto del suo viso ormai completamente corrugato dagli anni, la stessa espressione limpida di stupore raggiante che le era appartenuta un tempo da bambina; ma era soprattutto Sorella Emma che, ansioso, Peter cercava ovunque con lo sguardo, e le volte in cui, finalmente, quando magari si era già rassegnato a dover indugiare distrattamente sull’esile figura di un pallido ragazzo biondo, fermo in piedi a immalinconirsi sotto una delle pensiline di raccordo tra i reparti, gli capitava di vederla comparire proprio accanto a lui, sia pure per qualche istante appena, che sfilava via svelta alle sue spalle diretta chissà dove, sentiva il cuore sobbalzargli nel petto, come se, nonostante l’astinenza dal D.O.G. e senza che avvertisse il benché minimo bisogno di ricorrere a surrogati di qualsiasi tipo, egli per davvero appartenesse, saldamente partecipe in tutto, alle cose della sua vita. In quei momenti, quasi trascinato da un’onda felice di tenerezza e di tranquillità, il suo sguardo si levava ancora una volta verso i tetti, scorrendo l’unica delle quattro pareti del chiostro che la vegetazione rampicante rivestiva per intero, attratto all’inizio dall’ascesa impertinente lungo il tubo pluviale di una periploca graeca, coi suoi piccoli fiori quasi neri alloggiati in racemi e le belle foglie lucide e spesse, che si era aggrappata a una passiflora caerulea, madre rigogliosa di quel mistico e impenitente seduttore di insetti impollinatori che è il fiore della passione, e a una vitis coignetiae, ardente proprio come quel crepuscolo di tarda estate che aveva visto una volta adagiarsi, svaporando con bella calma di pianura, sui tetti rossi di Bologna, tra ombre porporine e scintille cremisi (non poteva non ricordare altresì che, per una curiosa fatalità, durante quel giovanile soggiorno bolognese, il suo pur frequente stato di ubriachezza non aveva mai avuto il retrogusto triste delle altre volte, e che anzi, dopo aver bevuto, si defilava via zitto zitto sotto quei bei portici materni e precisi come seni e coseni – tra gli studenti innamorati o soltanto in calore – a braccetto con qualche solforosa pianista vegetariana, oppure andava a casa di Alina, la sua amante russa dell’epoca, che con infantile soavità faceva di mestiere la puttana, giusto per farsi offrire il bicchiere della staffa, perché lei teneva sempre da parte per lui almeno una bottiglia di autentica vodka davvero sopraffina; e magari fuori certe volte pioveva e altre invece c’era il sole, ma la notte, umida o fresca, innevata o febbricitante, arrivava sempre bellissima, chissà perché, mentre lui stava sorridendo per un motivo qualsiasi o anche senza una ragione; in quei pochi mesi, a Bologna, aveva vissuto davvero qualcosa di inestimabile, simile in tutto a un abbraccio gentile, ed era stata la voglia incredibile di durare ancora, di custodire un po’ di tempo prima di finire, di mantenersi in forma per il nuovo anno che forse sarebbe arrivato), e soggiogato infine dal sollevarsi fitto e maestoso delle foglie a cinque lobi di un’akebia quinata, già priva dei suoi fiori color vinaccia ma nel contempo estesa sino a lambire la pancia delle grondaie, là dove ricominciava il tetto e, fra tegola e tegola, danzava nei bei giorni di vento un reticolo selvaggio di piccoli fiori bianchi.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti