In quel momento, però, Peter aveva cose molto più urgenti alle quali pensare: il suo stato di salute lo preoccupava perché i medici, dopo essere venuti a sapere dell’esistenza del D.O.G. proprio grazie al malore che per poco non lo uccideva durante la partita con Connors, non se l’erano sentita di sbilanciarsi tra l’ipotesi che quella crisi fosse solo un episodio isolato e l’altra, ben più grave, che ci si dovessero attendere invece dei postumi tali da rendere necessario un ricovero lungo e problematico e un’osservazione assolutamente scrupolosa della convalescenza; ma a dire il vero era un’altra la minaccia, lasciata in sospeso dai mutismi, a volte corrucciati, più spesso appena sorridenti (impossibile indovinare se a causa di una generica concessione ai fondamenti della buona educazione oppure per via di un qualche imbarazzo a sua volta non facilmente decifrabile, potendo essere ugualmente attribuito tanto al perdurare dell’incertezza nell’elaborazione di una diagnosi, e soprattutto di una prognosi definitiva, quanto all’obbligo professionale di dover mettere il paziente a conoscenza di una sentenza infausta), e dagli sguardi irrisolti dei dottori, a pendere sulla testa di Peter come una spada di Damocle che lo teneva sulle spine più di tutte, ovvero l’eventualità che, esponendolo per il resto della sua vita al rischio di ricadute, la sua infermità fosse da considerare in qualche modo cronica e quindi definitivamente invalidante. La prospettiva di una qualsiasi menomazione permanente lo atterriva davvero: la sottile incongruenza contenuta nell’idea di una vita forzata ad attuarsi per sempre in modo parziale era incompatibile col suo destino già certo di uomo disincantato perché, come qualsiasi altro obbligo, essa avrebbe prodotto una serie di desideri fittizi, logica conseguenza dell’assoluta incapacità di soddisfarli, falsificando così ogni aspettativa con l’irragionevolezza rancorosa e impotente della rabbia e corrugando di sedimenti passionali – un po’ come certi processi infiammatori che determinano calcificazioni sui tendini o lungo le fibre muscolari – la morbida flessibilità del disincanto mediante il frutto avvelenato di una trasgressione repressa in quella sua forma più estrema e idealizzata che è la nostalgia; perché se è vero che, sul piano materiale, niente ci appassiona come ciò che ci viene vietato, è nondimeno certo che, su quello spirituale, nulla inquina e sequestra i nostri sentimenti quanto il pensiero di qualcosa che di punto in bianco diventa impraticabile.
Come se non bastasse, ad angustiare i medici c’era anche la questione della messa a punto del protocollo terapeutico per la sua definitiva disintossicazione dal D.O.G. che, essendo una droga del tutto sconosciuta e mai citata in letteratura, li aveva, come già detto, colti tutti alla sprovvista. La sola cosa che sapevano per certo, e che Peter era riuscito a carpire mentre loro, tenendosi appena in disparte come i membri biancovestiti di un antico sodalizio pitagorico, confabulavano in una lingua che alle sue orecchie suonava solo traboccante di accenti meravigliosi e di etimologie lussureggianti, era che la molecola del D.O.G. pareva essere costituita da due porzioni, la prima pirrolidinonica e la seconda anisica, legate tra di loro per mezzo di una struttura imidica.
Tuttavia, nonostante intorno a lui il clima vibrasse solo d’incertezza e di preoccupazione, e a dispetto dell’onnipresente odore di disinfettante al bergamotto e di quello, appena più discreto, di sangue umano, nel quale, da buon gourmet, impiegò un nonnulla a riconoscere il sentore della cipolla, considerando sia il rovinoso fallimento tennistico al quale era andato incontro che la morte scampata poi per puro miracolo, recluso in quella clinica lussuosa che pareva in tutto e per tutto uno di quegli hotel opalescenti dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald, Peter si sentiva in fin dei conti finalmente protetto e per certi versi davvero libero. E questo grazie, prima di tutto, all’ubicazione della sua stanza, posta all’ultimo piano del braccio d’angolo della clinica, defilata e terminale ma affacciata su una prospettiva paesaggistica impareggiabile come quella di un giardino pensile di Babilonia; ma anche a Sorella Emma, una suora infermiera anglicana dell’ordine di St. Raymund Nonnatus, della quale s’innamorò subito perdutamente perché, oltre a ricordargli nei gesti la delicatezza gentile che aveva sua madre quando gli faceva le iniezioni da bambino, gli sorrideva ogni volta con una sorta di premura spensierata, sempre raggiante d’infinita pazienza per tutto il tempo che le pareva necessario prima di praticargli le endovenose di sedativo; e poi per la sua somiglianza con Nico, una delle muse di Andy Warhol, e perché, poco ma sicuro, almeno quando andava da lui, non portava mai il reggiseno sotto lo scapolare.

(estratto dal secondo volume)

©Andrea Rossetti

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