Sotto il peso crescente di un sentimento così intimo da risultare del tutto indecifrabile all’esterno se non per qualche ombra volatile di grazia e sparsi mulinelli irrilevanti di tristezza, a un certo punto Francis aveva preso l’abitudine di mettersi a chiacchierare con Peter ogni volta che si sedeva accanto a lui per il cambio di campo mentre faceva roteare la racchetta come una trottola, puntando un dito sul vertice del manico e tenendo a terra con morbidezza quello dell’ovale. Di solito non si trattava che di semplici frasi buttate lì, senza alcuna pretesa, le consuete verbalizzazioni della più classica e amichevole pacca sulla spalla; ma un giorno il fervore repressivo che esercitava ostinatamente sui propri pensieri si era tutt’a un tratto come accasciato, mentre la solitudine equorea dei suoi occhi aveva cominciato a sciabordare liberamente, alla ricerca di nuove distanze ed eccedendo più e più volte se stessa, liquefatta fino a dissolversi a causa dei turbamenti febbrili che intanto strizzavano di nascosto le sue ghiandole lacrimali, sopra il verde sfinito del campo da gioco che, coagulandosi viceversa in un’immagine precisissima, gli appariva addirittura scorticato dal pallido biancore delle linee che lo delimitavano, simili a dei lunghi e minuti sentieri, a una sequenza di angoli retti tracciati con polvere d’ossa umane spacciata dagli addetti alla manutenzione per del comunissimo gesso.
“Non vedo perché non dovrei dirtelo,” sbottò all’improvviso, “ci siamo sempre detti tutto noi due, per di più metterei a rischio i progressi che stiamo facendo sul campo: il tennis, lo sai meglio di me, presuppone senz’altro una fede definitiva nella discrezione ma nel contempo non trae alcun vantaggio dalla meschinità subdola dei segreti. Ebbene, io penso spesso alla dolcezza aspra dei tuoi occhi, che mi batte e mi squassa come fa il vento d’altura a una campanella arrugginita, rimasta in esilio lassù, non si sa bene in che modo, priva oramai di verosimili motivazioni; così come guardo il colore della tua bocca, che mi fa pensare a un pettirosso intrappolato tra i rovi inconsulti di un roseto arido e sfiorito, e poi alla tua pelle, che mi sembra una porcellana bianca, un candido servizio da colazione fatto apposta per un mondo capace di non disertare gli obblighi dell’inverno. Tu per me sei tutto questo e non m’importa dell’effetto che ti fa ora venirlo a sapere, così, senza alcun preavviso. Ti vorrei, caro il mio ostinato assente, se non altro appena felice, questo sì, della sola prossimità con la mia anima che a volte, lo riconosco, può sembrare un po’ torbida e complicata ma di sicuro mai meno leggera dei suoi ventuno grammi; anzi, visto che tra l’altro tu all’anima non credi, mi piacerebbe addirittura che per scherzo tu me la trafugassi, nottetempo, con quella cinica astrazione meravigliosa nella quale sei maestro, costringendo così anche me a crederci di meno.”
Peter lo guardava stranito, a tratti sorridendo al vuoto, a un punto qualsiasi dello spazio intorno a sé, perché, di fronte a qualcosa che somigliava troppo a una dichiarazione d’amore, come ripeteva spesso, solo una sana disattenzione poteva impedirgli di reagire in modo del tutto superficiale.
Francis, tuttavia, pareva immune a qualsiasi reazione non soltanto da parte del suo amico ma perfino del mondo intero, che sin da principio aveva magicamente raccolto tutt’intorno ai propri occhi con un solo battito delle palpebre, facendone l’ombretto bluastro e appena malinconico di una gioia ribelle e pronta ormai a precipitare con tutta la magnifica potenza naturale di una cascata su ogni verosimile forma di sentimento.
Dava l’impressione di aprire bocca dopo essersi appartato a tu per tu con le sue parole, in un dialogo talmente ineffabile da dover cercare la contrazione di un monologo per trovare alla fine l’appiglio della voce, stordito dalla vitalità di pensieri infine liberati dalla trappola del loro stesso pudore: “Non credi che Francis – Francesco – sia un nome perfetto per un apostata anglicano che solo grazie a un’anima latina crede nella spiritualità del mondo e delle cose? Io porto su di me le stimmate suddite dell’ateismo mancato di San Francesco d’Assisi, mio caro! Una minaccia infernale irrealizzata, che tuttavia ora pende ironica sul niente di tutti noi. La primavera non è davvero che nell’attesa della primavera, è un pinnacolo saraceno sul quale si è arrampicata per sbadataggine – o se preferisci per la dura stupidità della pietra – la statua irrilevante di una qualsiasi santa. Così, nella speranza di prossime memorie e nel ricordo di un futuro antico, annaspano le onde bastarde del mio umor nero, affrante su scuri scogli improvvisi, fin dentro le grotte delle murene, o delle apparizioni mariane, che, a parità di senso, tendono a essere quantomeno più rassicuranti. Stanotte, amico mio, avrei proprio bisogno di dormirti accanto, anzi legato a te, per respirarti, per sentire su di me ogni tuo mutamento, la nascita sul tuo corpo di ogni esatto calore e di ogni brivido di freddo, e quindi l’amoralità assoluta e libera del mio permanere, così vivido ancora di tramontate tempeste e di passioni scomparse, tutta ricapitolata nel disegno morbido del perimetro di te che dormi. È per questo che nel disamore di me, nel non aver mai avuto la stupidità necessaria per trovare se non altro il conforto dell’imperfetta letizia, io sanguino, e nella fortunata brevità del sangue che perdo ti riconosco immensamente amato”.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti