Francis era senza dubbio il compagno perfetto per giocare a tennis. I suoi allenamenti con Peter potevano durare ore, ogni giorno, nell’abbraccio amichevole dell’abitudine che ormai entrambi avevano fatto agli sprazzi feroci di sole e ai giudiziosi piovaschi che si alternavano più o meno rapidi, in battere e in levare, nei quattro quarti di cielo inglese sul campo dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon a loro riservato. Lui sapeva reggere lo scambio come pochi e le maratone non impensierivano il suo corpo elastico e scattante, ben ispirato da una condizione atletica straordinaria che la sua giovinezza assoluta, al centro della quale ostentatamente si faceva trovare, temprava con lo stress di un’implacabile sequenza di picchi ormonali.
Non aveva mai nascosto la sua omosessualità e Peter apprezzava molto il fatto che la considerasse una condizione ovvia e naturale, una parte integrante e necessaria del suo modo di stare al mondo, amabilmente intrecciata a tutto il resto e armonica con la qualità propria della sua razionalità e dei suoi affetti e persino con la forma unica dei suoi fondamentali di tennista, che perseguiva, strutturava e perfezionava sul campo giorno dopo giorno. L’omosessualità di Francis era un vero lampo di luce greca, mediterranea, che faceva finalmente vibrare in modo del tutto diverso l’abitudinaria quadricromia britannica delle annuali fotografie di gruppo dei soci del circolo; era l’aura primitiva della sabbia ginnasiale, che tuttavia in pochi riconoscevano ed erano capaci di considerare senza fastidio, soprattutto quando credevano si limitasse a prendere corpo solo in quelle polverose zone grigie che ogni anno l’usura di appena due settimane di gioco sottraeva regolarmente alla perfetta lucentezza verdeggiante dell’erba del Center Court, come se una maledizione olimpica fosse stata scagliata una volta per tutte contro la celebrazione della finale delle finali; ma più di ogni altra cosa era un valore aggiunto ai suoi allenamenti con Peter e alle loro interminabili partite: era qualcosa che stava chiaramente dalla loro parte, che contribuiva in modo decisivo a scavare nelle mancanze di entrambi fino a correggerle, a sviarle dalla loro fatale propensione a banalizzarsi nell’accettazione definitiva di un difetto, di un limite di gioco senza possibilità di redenzione.
Tuttavia Peter non avrebbe mai sospettato che l’amicizia e l’intima solidarietà cameratesca e sportiva che dall’inizio del suo tentativo di partecipare al torneo del centenario di Wimbledon lo aveva sempre più unito a Francis, rendendolo ai suoi occhi, giorno per giorno, l’allenatore e l’avversario perfetto, quello cioè che nel modo migliore esalta, evidenzia e avvia alla correzione più adeguata i punti deboli di un giocatore di tennis, custodissero anche un al di là, un nocciolo aspro e fragile di incondizionata tenerezza, simile a quel valico di montagna dove, nell’aprirsi del bastione roccioso alla valle, l’aria da assolutamente limpida si fa anche rarefatta, tenendo insieme in una specie di gioiosa fatica la soddisfazione del morale e il disagio del corpo.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti