“La prima violenza che un bambino subisce nella sua vita è il respiro…”, con questa frase che in passato le avevo già sentito ripetere tante volte e che scandiva sempre allo stesso modo con la sua tipica voce morbida e tortuosa, segnata dalle origini lusitane come da un vezzo, un sibilo scivoloso sui bassi nei quali tendeva a raggomitolarsi, un po’ serpe e un po’ gatta, e all’opposto un’increspatura sui toni alti, simile alla cresta di un gallo o a una piccola onda appena contrastante sulla superficie del mare calmo, zia Maria, che tutti noi in famiglia chiamavamo “la portoghese” e che da ragazza di cognome faceva Monteiro, aveva cominciato a parlarmi, inaugurando così, insieme all’accensione dell’illuminazione artificiale per aloni successivi e dislivelli regolari, il malinconico, pensoso raccoglimento di quella sera – la prima dell’epoca appena cominciata del mio affidamento a lei e a suo marito, lo zio Adrian, disposto in via definitiva dal tribunale dopo la morte dei miei genitori e confortato anche da un mio abulico e quanto mai distratto consenso – nella quale stavo ancora dando forma di smarrimento ai postumi dolenti dell’abitudine alla mia nuova condizione di orfano e che, intrecciando per caso tra loro i nostri due tipi di solitudine, il mio più aperto e materiale, il suo più inaccessibile e astratto, pareva fatta apposta per le confessioni.
C’era in lei un tiepido cordoglio, netto come il profumo della brace languente quand’è trattenuto nell’aria da una debole pioggia, che si sarebbe potuto definire senza dubbio accogliente, privo di chiusure nella sfumatura che accomunava e addirittura confondeva l’ombra di una vaga amarezza primordiale e il tratto forte della presente, vivida compassione per il mio stato; e dalla cui onestà ero stato conquistato come dall’immediata consistenza di un abbraccio amoroso, di quella specie particolare in cui una sensualità embrionale e poco disinvolta può giustificarsi e sorvolare quindi l’imbarazzo del rimorso spiegando se stessa in termini di abbandono, di conforto, di confidenza. Zia Maria stava per diventare determinante nella genesi sentimentale di quel punto di vista che avrei in seguito chiamato disincanto e parimenti per la sua comprensione successiva – che mi avrebbe impegnato in un’analisi tanto minuziosa quanto di volta in volta fortunosamente insoddisfacente per il resto della mia vita – ma allora, nel corso di quella prima sera trascorsa in casa loro, io e lei da soli, mentre andavo scoprendo la sua premura inaspettata nei miei confronti, da adolescente qual ero non mi sarebbe stato possibile non confondere il piacere della gratitudine che provavo – impegnativo come l’ampiezza del primo respiro che viene di slancio dopo un pericolo scampato – con quello dell’incanto per le sue gambe tornite, per la sua vita lieve e fondamentale come ogni bel punto di partenza e poi per le linee del seno, già perfettamente curve nel tratteggio appena evocato dalla tesa costrizione di un golfino alla moda col collo a V, che confondeva il mio cuore di ragazzino con la sua duplice forma di apertura su un precipizio e d’invocazione al cielo, con l’equivoca attitudine alla generosità di una contraddizione che si fa via d’uscita come le volte della chiesa del Carmelo di Lisbona – che in seguito avrei imparato a conoscere molto bene – dopo i crolli del grande terremoto del 1755.
Mentre mi faceva strada lungo un corridoio, che umidamente odorava di chiuso, verso un altro spazio più ampio, schiarito sullo sfondo dalle lamine di una luminescenza metallica e incolore, e io la seguivo confidando in punta di piedi nell’imperioso sollevarsi del suo collo nudo, appena vibrante alla luce per l’ondulazione delle vertebre cervicali, sul bordo del golfino fino alla morbida sospensione dello chignon basso da étoile, lei non aveva mai smesso di parlarmi, rendendomi partecipe di quello che sembrava in realtà più che altro un soliloquio: “Conosco bene il tuo dolore e so che ora ti senti fuori posto dappertutto, ma devi sapere, e un giorno sono sicura che lo capirai fino al punto di approfittarne, che l’’uomo non ha peccati – originali, mortali o veniali che siano – da scontare: non è già abbastanza che debba patire il rimorso di essere in vita, non è abbastanza il dolore devastante di nascere da un giorno all’altro nel bel mezzo di se stesso senza averlo voluto? Il senso di colpa, la contrizione, il pentimento sono indecenti trafitture imposte a una fin troppo spietata innocenza! Non c’è alcun Dio al quale rendere conto e dal quale sentirci attesi per chissà quale nevrotica consolazione. Siamo del tutto casuali, abbandonati a noi stessi, esposti come orfani – e nessuno meglio di te può saperlo – nel buio della ruota fortunosa dei legami famigliari, e per questo ogni abbraccio in seguito prescelto, ogni bacio cocciutamente desiderato e infine ottenuto, devono esserci sempre e comunque preziosi, come bandiere sciolte ai venti delle loro brevi stagioni, vibranti del più vulnerabile e puro degli abbandoni…”
Io l’ascoltavo senza capire, mi libravo soltanto alla sua voce, perché in quel momento l’unica cosa che davvero m’importava era la sorpresa di trovarmi per la prima volta nella mia vita di fronte alla felice necessità di riconoscermi innamorato.
“So bene che ora tu non mi comprendi – aveva proseguito lei mentre la sua presenza cullava il mio sguardo nel quale la malinconia non accennava a cicatrizzarsi – o che potresti addirittura, anche in futuro, non essere d’accordo con me, e d’altra parte io non lo pretendo perché questo è esattamente nelle cose, perché è giusto di fronte a ciò che ci rende una volta per tutte due persone diverse e che alcuni chiamano indole, altri personalità , altri ancora solitudine. Come potrei forzarti ingiustamente, anche solo abusando dell’ascendente che per via del mio ruolo e della mia età forse oggi mi trovo ad avere ai tuoi occhi, quando per tutta la vita ho cercato soltanto la giustizia e la meraviglia fino a scoprire mio malgrado che entrambe non possono che essere crudeli?”
“Ma io voglio essere sempre d’accordo con te!”, le avevo risposto con uno slancio vocale che mi era uscito di bocca talmente enfatico e infantile da trasmettermi all’istante l’atroce consapevolezza di essermi reso ridicolo in modo irreparabile nella considerazione di colei che già sognavo un giorno di poter sposare anche a costo di sfidare a duello zio Adrian; e questo mi aveva fatto arrossire prima di vergogna e poi di rabbia, trasformandosi anche in una sorta di bruciante prurito intorno agli occhi e all’apice delle guance la cui evidenza aveva messo in moto un circolo vizioso per il quale dall’imbarazzo non potevo che trarre altro disagio, senza soluzione di continuità .
Inconsapevolmente però, Zia Maria, la portoghese, era venuta in mio aiuto, oltrepassando i miei entusiasmi puerili e lo stato di confusa agitazione nel quale ero rimasto intrappolato con l’amabilità incondizionata di un lungo sorriso astratto, privo di realistiche compromissioni e sormontato invece dalla pura rifrazione – lucida e universale – delle sue pupille, che mi aveva ricordato tutt’a un tratto la calma e la compostezza rivoluzionaria di certe miniature che i fratelli Limbourg avevano realizzato per i codici del Duca di Berry e che a suo tempo avevo visto riprodotte in uno dei libri della biblioteca di mio padre.
Nel frattempo eravamo giunti in una grande stanza interamente rivestita da una carta da parati dal fondo chiaro decorata con un disegno a quadrati, sovrapposti o divisi, in varie gradazioni di arancione, dal quasi giallo al brunito, di diversa misura e dagli angoli sempre arrotondati, la cui scarsa simmetria, del tutto improbabile e per il mio gusto quasi brutale, in principio mi aveva provocato un sentimento amaro di repulsione acuito dall’effetto disturbante della luce azzurrina che penetrava all’interno in modo piuttosto sproporzionato attraverso la grande vetrata che si apriva sul fondo, impastandosi appena, con la svogliatezza di una moina condiscendente, alle righe verticali della tenda, disegnate dall’alternanza di bianco e turchino, che in seguito, a causa della mia maniacale passione tennistica per le linee, avrei scoperto misurare ciascuna poco meno di tre pollici e mezzo, come quelle delle opere giovanili di Daniel Buren.
La zia, intanto, continuava a parlare – “Chissà , magari scopriremo che sono davvero tante le cose che onestamente siamo costretti a non condividere, ma pure che questo non è un dramma perché anzi proprio il riconoscimento della necessità intellettuale di prendere le distanze l’uno dall’altra potrebbe alla fine rendere trasparente la forza di una simpatia istintiva che non ci libererebbe dai nostri rispettivi obblighi semplicemente avvicinandoci per un’altra via, non credi?…” – e intanto si distendeva, a dispetto degli abiti, nella stessa posa di Paolina Borghese ritratta nuda da Canova come Venere vincitrice, ma sopra un divanetto rivestito in velluto mohair color aragosta con le gambette in ferro e i puntali in ottone. A me arrivava inconfondibile, quasi soffiata tutt’intorno da ciascuno dei suoi movimenti leggeri, abbandonati all’aria un po’ molle da sceneggiato televisivo in bianco e nero che stavo respirando, la fragranza del suo profumo preferito: l’Eau d’Hermés, il capolavoro che Edmond Roudnitska aveva immaginato e composto intorno a un aroma speziato capace di evocare alla perfezione le sensazioni olfattive che nel momento dell’apertura si sprigionano appunto dall’interno di una borsa Hermés, col suo odore elegante di pelle pregiata che prima si schiude sulla forza decisa degli agrumi e poi inizia a salire, perdendosi via via verso l’ambra, il bergamotto, la cannella, il cardamomo, il geranio e il cumino.
“Non so di preciso cosa ti abbiano raccontato di me e della mia vita, anche se posso immaginarlo visto che sono consapevole di non essere – come dire, insomma – proprio la prediletta della famiglia ecco, ma voglio che tu sappia, e lo desidero non perché io abbia la coda di paglia o per mettere le mani avanti ma soltanto per onorare il tuo giudizio con tutta la considerazione possibile, che sinceramente non sento di avere commesso peccati dei quali dovermi pentire…”
Mentre pronunciava queste parole con un tono di voce affettuoso ma tenuto saldamente al di qua di facili languori da una cadenza quasi rigida, più germanica che neolatina, mi aveva fatto un cenno con la mano, graffiando la luce davanti a me con l’indice leggermente curvo come quelli di Dio e di Adamo che si sfiorano sulle volte della Cappella Sistina, invitandomi così a raggiungerla sul divano per poi però lasciarmi deluso, rannicchiato in fondo, nell’angolo lasciato libero dai suoi piedi, in una posizione che ricordava molto quella del cagnolino nella “Venere di Urbino” di Tiziano, sebbene la drastica scomposizione della luce che ci circondava e che, data la mancanza di panneggi ragguardevoli, si specchiava quasi del tutto nel digradare dei colori dominanti, dall’aragosta all’arancione o dall’ocra al giallo di Napoli, rendesse l’insieme in verità più somigliante alla copia dipinta da Ingres nel 1821.
“Vedi, la mia è una storia oltraggiosa – aveva subito ripreso lei senza fare caso ai molteplici indizi della mia delusione infantile – nella quale la bellezza, perché io non credo che il burattinaio di ogni cosa possa essere un altro, è stata spesso disumana con me, così come in un modo diverso lo è stata con te, e forse dopo questa nostra chiacchierata, che è poi la prima vera che facciamo in confidenza, noi due da soli, al di fuori delle tante occasioni legate solo alla famiglia durante le quali ci siamo sempre incontrati ma mai conosciuti sul serio, quando ogni cosa che ci riguarda sarà finalmente chiara e sincera come dovrebbe, riusciremo anche a riconoscere il modo migliore per vivere in futuro l’uno accanto all’altra accettando la consapevolezza che, per evitare tutto il dolore che ci ha condotti fin qui, entrambi ne avremmo fatto volentieri a meno.”
Io la guardavo confuso, perché quel suo strano e a tratti indecifrabile discorso che dall’accelerazione del battito del mio cuore e dalla progressione della frequenza del mio respiro percepivo di amare alla follia mi ispirava anche un numero indefinito di pensieri sgradevoli, come se un paesaggio idilliaco, una campagna soleggiata e puntinata da una moltitudine di fiori diversi, s’incupisse a un tratto per l’apparire nel cielo di un folto stormo di corvi gracchianti. Il suo parlare operava in me una scissione difficilmente governabile – tanto più in considerazione del fatto che ero ancora un ragazzino – tra l’invadenza di un incanto sensoriale, dominato per intero dalla bellezza vertiginosa della sua voce, e l’allarme molesto che nel medesimo tempo aggrovigliava i miei pensieri e che era suscitato invece dalla cupa densità dei concetti che quella stessa voce, quasi a dispetto della sua grazia, mi stava esprimendo.
A mia parziale giustificazione c’è da dire che a quell’età ero portato a interpretare l’oscurità dei pensieri come una minaccia rispetto alla quale mi ponevo con un atteggiamento assolutamente vittimistico, quasi che l’impossibilità o la difficoltà di comprendere fossero delle imboscate che subivo anziché le manifestazioni di una mia carenza più o meno grave. Non a caso in quello stesso periodo, mentre imparavo a giocare a tennis con zio Dominic, quando mi capitava di commettere un doppio fallo nel servizio, errore per me tra i più odiosi, me la prendevo col sole che mi aveva abbagliato o col vento che all’improvviso si era messo a soffiare troppo forte deviando la traiettoria della palla, come se i miei avversari fossero altrove e non si trovassero a loro volta nelle mie stesse condizioni. Grazie al tennis, però, in seguito avrei anche capito che l’incidenza del tempo atmosferico su ogni singolo colpo, così come nei ragionamenti quella del senso generale su ciascun significato particolare, poteva sempre essere interpretata con metodo caso per caso, a patto di rinunciare alla comoda intangibilità di una regola elaborata una volta per tutte, destreggiandosi tra infinite potenziali eccezioni, al solo scopo di lambire appena la linea di battuta con un ace vincente, oppure la verità , con un concetto capace di dare origine a una convinzione.
(estratto dal primo volume)
©Andrea Rossetti