Quando arriva il momento di partire, al tempo in cui lasciare un luogo una volta per tutte diventa, oltre ogni altra considerazione, una necessità indifferibile e la vaghezza iniziale di quel desiderio giunge addirittura a riconoscersi nell’impellenza lusingatrice di una più o meno stramba vocazione, il posto che si abbandona lascia nella mente l’idea precisa che di esso ci si è fatta e nel cuore, al contrario, la forma puramente ideale di se stesso, due ombre differenti ma altrettanto profonde e indecifrabili. Così, di pari passo, per una naturale remissività nei confronti del concetto di equilibrio, si diventa ben consapevoli di abbandonare lì per sempre tutto ciò che in quell’ambiente è stato definitivamente compromesso dalle tracce della propria presenza: un nugolo ormai indefinito e decomposto di pensieri; il calco dell’eco del suono della voce; le linee abituali dello sguardo mediate dalle inclinazioni specifiche delle forme circostanti e dalle varie obliquità della luce raccolte d’ora in ora in quello spazio; addirittura le pellicine delle unghie chiamate a dare un’identità biologica e una chiave di lettura possibile all’anonima ambiguità della polvere; e infine, lasciandosi trascinare al di là da sé dalla poetica spregiudicatezza sempre più visionaria di quei languori, l’impressione visiva di molte ombre di cose e di persone transitate nel corso del tempo e poi rimaste in loco sotto forma di piccole crepe e di vaghe ombreggiature sopra l’intonaco dei muri.
In questo scambio si attua la costruzione del ricordo, giacché da quel momento in poi né l’abitante né il luogo abitato saranno mai più la stessa persona e la medesima cosa. Le memorie non sono altro che le tracce di irreversibili modificazioni avvenute una volta per tutte. Noi osserviamo il mondo e il mondo ci osserva e in tale, oscuro scrutarsi a vicenda tutto subisce un cambiamento più o meno radicale: questa è l’unica rivoluzione possibile, un’orbita che ci riporta a quello straordinario punto di partenza che in parte è rimasto lo stesso ma che un po’ è anche mutato. Dovremmo lasciar perdere l’esercizio storico della volontà animato dai grandi ideali, perché con quelli si fanno al massimo le rivoluzioni politiche che, etimologicamente corrette, tornano sì al punto dal quale sono partite, ma in modo abnorme, accresciuto, tumorale.
Lo scambio, la costruzione del ricordo, ha invece un’indole leggera, manca del tutto di struggimento, che è piuttosto il fardello a posteriori che gli affibbia un romanticismo volitivo, guerrafondaio, completamente estraneo alla minima, quieta, essenza dei fatti.
La vita è un piccolo ingranaggio dal funzionamento alquanto ordinario che veicola imponderabili misteri; segreti che peraltro nessuno è in grado di vedere e valutare, trattandosi in sostanza di brevi racconti messi da parte e leggibili soltanto dagli occhi dell’unico spirito che di fatto ci è passato attraverso e che, sebbene nell’ombra, ne è stato poi modificato per sempre.
Ogni addio prevede immancabilmente il proprio bentornato.
Per questo quando si abbandona un luogo sarebbe conveniente cercare di mostrargli sempre un minimo di riconoscenza, anche per ciò che di noi gli resta attaccato, andando a contaminare per il futuro la forma della sua esistenza. Nel momento di andarsene, bisognerebbe sempre sorridere ai luoghi, con la massima educazione e il giusto rispetto, per poter chiudere infine la porta senza avere rimpianti; perché se, col pretesto del commiato, si cerca invece di seppellire d’imperio le quantunque residue emozioni intrecciate con l’esistenza dello spazio dal quale si prende congedo, esse poi non se ne andranno mai per davvero, ma rimarranno al loro posto all’infinito, a poco a poco diventando altro, e poi marcendo, per trasformarsi alla fine in qualcosa di molto più oscuro, malato e doloroso.
(estratto dal secondo volume)
©Andrea Rossetti